Un’importante iniziativa, segnalata dal Corriere del Veneto riguarda la terapia psicologica cui verranno sottoposti gli uomini che stanno scontando la pena in carcere per il reato di violenza e femminicidio nelle carceri di Padova e di Belluno.
Si tratta di un significativo e necessario intervento psicologico – educativo sugli uomini che si sono macchiati di crimini sulle donne che solo da gennaio di quest’anno hanno mietuto 46 vittime.
Durante i colloqui, i terapeuti cercheranno di portare al ripensamento degli atti tremendi che gli uomini hanno esercitato sulle donne, spingendosi a individuare da quale impulso possa essere cresciuta una violenza tanto efferata.
E quindi di riuscire a entrare tra i meandri della mente che ha potuto pensare, delle mani che hanno potuto uccidere, per far sì che l’uomo che uscirà dal carcere dopo aver scontato la pena, non assomigli più a quello di prima, non si riconosca.
Il lavoro degli psicologi e dei terapisti insiste sugli strumenti capaci di risvegliare la consapevolezza e più a fondo le ragioni di quella violenza omicida sulle donne e non solo.
Da anni ci si interroga sulle ragioni della violenza, ogni ambito della scienza ha contribuito a sviluppare e sostanziare un pensiero capace di leggere un fenomeno tanto inquietante.
La psicologa Nicoletta Regonati spiega che «Quello della violenza sulle donne è un fenomeno trasversale. In carcere ci finiscono ragazzi poco più che maggiorenni e pensionati, laureati e semianalfabeti. E questo perché gli abusi hanno radici che affondano in fattori diversi. C’è chi ha avuto genitori aggressivi e chi sente di non avere scelta e vuole il controllo dell’altro, magari per un senso di superiorità del maschio sulla femmina».
Attraverso ventiquattro incontri in carcere – due ore la settimana, che possono proseguire anche all’esterno, quando il detenuto ha finito di scontare la pena – gli psicologi puntano a far sviluppare all’autore dei maltrattamenti un senso di autocritica. «Il 90 per cento di chi accetta di partecipare – assicura – continua a mantenere un comportamento non violento anche dopo la scarcerazione».
La vicenda di Saman, la ragazza pachistana sparita nel nulla e a parere del fratello uccisa e sepolta da uno zio per non aver accettato un matrimonio combinato dalla famiglia con un uomo in Pakistan, ha riacceso il dibattito sulle origini della violenza e il prof. Luigi Manconi dalle pagine de Il Manifesto non si è sottratto a un’analisi coraggiosa, nascosta sotto il tappeto, come si fa con la polvere, per non volerla, saperla, vedere. “Vanno affrontate le implicazioni profonde che la sorte toccata a Saman ci consegna. Innanzitutto, si può dire che, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, “l’Islam c’entra“. Insomma, quello della diciottenne pachistana non è stato l’ennesimo femminicidio. Si tratta, piuttosto, di un crimine che ha visto coinvolto un intero clan parentale, determinato a osservare ciò che rappresentano un principio e una norma. Principio e norma che sono l’esito dell’incontro tra un’idea fondamentalista dell’Islam e una tradizione patriarcale e tribale dell’ordine familiare.
Dunque, se è errato demonizzare l’Islam nel suo complesso, è altrettanto superficiale rifiutarsi di vedere il peso esercitato da un’interpretazione integralista del Corano nel condizionare i comportamenti di una parte rilevante dei fedeli.
Anche perché lo scontro tra due concezioni dell’Islam, l’una fondamentalista e l’altra progressiva, è al centro di una grande battaglia culturale, in corso in tutti i Paesi occidentali nel cuore delle stesse popolazioni musulmane (in Italia, circa 1 milione e 600 mila individui). Un conflitto intergenerazionale. Una sorta di “lotta di classe” culturale, che oppone i musulmani di seconda generazione a gran parte dei musulmani di quelle precedenti”.
“È una sfida combattuta all’interno delle comunità e delle famiglie con risultati alterni; e che ha visto Saman soccombere davanti al dispotismo familiare fattosi azione criminale. Ma, grazie al cielo, decine di migliaia di sue coetanee e coetanei stanno vincendo la loro battaglia: o perché trovano in famiglia condivisione di valori e aspettative, o perché riescono, nonostante tutto, a ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Sono i tantissimi giovani musulmani che frequentano le scuole e le università italiane, che intrecciano relazioni sociali “miste”, che si riuniscono in forme associative che ne agevolano l’emancipazione”.
Per tutti questi motivi, gli operatori che si troveranno a dialogare in carcere con chi ha commesso un reato così abnorme, dovranno trovare il modo di entrare nella complessità, nelle diversificazioni dei radicamenti territoriali, ambientali, culturali e comportamentali.
Un carico terapeutico che avrà bisogno di tanti specialisti di differenti ambiti: c’è una responsabilità individuale e una collettiva da analizzare.
La scrittrice Michela Murgia s’interroga sul perché di uomini violenti ce ne siano migliaia e picchino, violentino altrettante donne ogni anno.
Sostiene che non si tratta di folli e che le cause sono culturali.
”Sono il frutto di un processo sociale, che costruisce e alimenta in tutti e in tutte noi l’idea che una donna sia una cosa (“sei mia/sono sua”) o una funzione (“la moglie/fidanzata/figlia/sorella/madre”), ma mai una persona dotata di autonomia.
Quella cultura è fatta di tante cose. La prima è il rifiuto di molti ad accettare che il maschilismo esista e faccia ogni anno decine di morti. Negare che esista è un modo per continuare a pensare che quelle morti siano tutti raptus, tutti gesti inconsulti, tutte eccezioni.
Poi c’è la resistenza ai programmi scolastici di educazione contro gli stereotipi di genere: a dire uomo, donna, amore e addio si impara, ma in Europa i soli paesi che non lo insegnano sono l’Italia e la Grecia”. (da Donna Moderna).
Stando al report sul periodo pandemia dell’Istat, nel primo semestre 2020 i femminicidi sono stati quasi la metà del totale degli omicidi (il 45%): il 10% in più rispetto ai primi sei mesi del 2019, quando la percentuale era del 35%.
Inoltre, nei due mesi di confinamento più duro – quelli tra marzo e aprile -, i femminicidi hanno raggiunto un picco del 50%.
Nel 90% dei casi gli assassini erano membri della comunità familiare, e nel 61% si trattava di un partner o ex partner. Le persone, cioè, con le quali spendevano la maggior parte del loro tempo chiuse in casa.
Non che la violenza sia nata con la pandemia, certo. Ma quest’ anno è stato indubbiamente particolare ha aumentato le situazioni di pericolo per le donne già a rischio, peggiorando spesso la loro condizione.
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Spesso a farle stare male è anche la presenza dei figli in casa, costretti ad assistere alle violenze molto più di prima.
L’età media di chi chiede aiuto è tra i 39 e i 59 anni, ma la verità è che ci sono anche tantissime giovani appena maggiorenni. A peggiorare la loro condizione è la dipendenza economica: non avendo prospettive lavorative anche a causa della pandemia, molte di loro hanno desistito dallo scappare.
La donna che non scappa è la donna che si chiede dove andare, cosa fare, tanto più se ha dei bambini.
La responsabilità di questi numeri è anche di chi non fa niente per darle un’opportunità.
Andreina Corso