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Strage nella redazione del giornale Charlie Hebdo per le vignette satiriche su Maometto

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E’ spaventoso come sia stato efficace nella sua semplicità questo attentato che ha messo in ginocchio la Francia e le sue istituzioni.
Su Charlie Hebdo la sorveglianza si era un po’ allentata. Da qualche tempo, un mese o due, non c’era più l’auto della polizia ferma davanti all’ingresso del giornale. I terroristi se ne devono essere accorti.

Un commando scende da una Citroën C3 nera, due uomini mitra in pugno salgono nella redazione del giornale e sparano a qualsiasi cosa: 12 persone uccise, 8 giornalisti, un inserviente, un ospite della redazione, due poliziotti.
Nella redazione del giornale Charlie Hebdo il mercoledì c’è la riunione editoriale, e i terroristi lo sapevano. Alle 11 e 30 del mattino due uomini con il volto coperto, armati di un kalashnikov e un fucile a pompa, forse con i giubbotti anti-proiettile, entrano nei locali del settimanale satirico e incrociano una postina che fortunatamente riesce a scappare quando li vede.

Nel palazzo ci sono tre piani e molti uffici, i due uomini vogliono arrivare immediatamente al loro obiettivo. I terroristi prendono di mira uno dei due inservienti all’ingresso, lo costringono a dire loro dove si trova la redazione, a quel punto sanno che Charlie Hebdo è al secondo piano e lui non serve più. Lo uccidono. Si chiama Fredéric Boisseau, ha 42 anni. È la prima vittima del massacro.

I terroristi salgono al secondo piano, incrociano la disegnatrice Corinne Rey, la firma «Coco» del giornale, con le armi puntate addosso, Coco sarebbe stata obbligata a digitare il codice di accesso per aprire la porta del giornale. «Sono entrati, hanno cominciato a sparare – ha raccontato -. Io mi sono rifugiata sotto una scrivania. Sarà durato tutto cinque minuti. Parlavano un francese perfetto, dicevano di essere di Al Qaeda».

I due uomini armati arrivano nella stanza della riunione, intorno al grande tavolo del giornale ci sono quasi tutti: il direttore Stéphane Charbonnier detto Charb, la sua guardia del corpo, le firme del giornale: Wolinski, Cabu, Tignous, Philippe Honoré, l’economista Bernard Maris, la psicologa Elsa Cayat, il correttore Moustapha Ourad. Il primo a morire è l’agente di scorta del direttore. Viene ucciso con più colpi, immediatamente, non fa neanche il tempo di reagire. Poi tocca a Charb, il direttore, l’obiettivo principale della missione terroristica, da anni nella lista dei bersagli di Al Qaeda. Secondo alcuni testimoni, i terroristi chiedono ai giornalisti di dire il loro nome, poi sparano a colpo sicuro.

Nel frattempo, i dipendenti degli uffici vicini hanno trovato rifugio sul tetto, uno di loro, Martin Boudot, ha twittato sull’assalto in corso.
Dopo il massacro, i due terroristi sono tornati in strada e si sono diretti verso la Citroën dove c’era il terzo uomo ad aspettarli. Nei video girati con il telefonino dalle finestre e dal tetto, li si sente gridare «Allah Akbar!», «Allah è il più grande», e «Abbiamo ucciso Charlie Hebdo!», «Abbiamo vendicato il profeta Maometto!».

Charlie Hebdo fu il giornale che in Francia nel 2006 decise di ripubblicare le vignette satiriche su Maometto del giornale danese Jyllands Posten, che avevano provocato manifestazioni e incidenti a Copenaghen. Da allora Charlie Hebdo ha vissuto sotto la minaccia dei terroristi islamici. Nel 2011 una molotov distrusse la precedente redazione, i giornalisti vennero ospitati per qualche mese dai colleghi di Libération, e nel 2012 si sono trasferiti nella sede attuale, al numero 10 di rue Nicolas-Appert.

«Allah Akbar!», gridano ancora i terroristi per strada, dopo avere scaricato decine di colpi sul parabrezza di un’auto della polizia. I due stanno per rientrare in auto quando vedono avvicinarsi un agente di polizia in bicicletta, lungo il boulevard Richard Lenoir.
Con una freddezza che lascia sgomenti, i terroristi si allontanano dall’auto e decidono che il lavoro non è ancora finito. Sparano raffiche contro il poliziotto, che cade a terra. Corrono senza agitarsi verso di lui. Il ferito si muove e viene finito con un colpo alla testa.

Si chiamava Ahmed Merabe, aveva 42 anni. Lavorava al commissariato centrale dell’XI arrondissement. Ahmed è un nome musulmano che significa «il più degno di lodi». E’ morto in quanto francese sotto i colpi sparati in nome di una religione che era anche la sua.

Mario Nascimbeni

[08/01/2015]

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