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Badante o Colf fanno video per testimoniare lavoro nero, è illecito penale?

Diritto del Lavoro: "Le videoriprese effettuate dalla badante o dalla COLF di nascosto nei luoghi di privata dimora per dimostrare l'esistenza di un rapporto di lavoro nero costituiscono illecito penale?"

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Le videoriprese effettuate dalla badante o dalla COLF di nascosto nei luoghi di privata dimora per dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro nero costituiscono illecito penale?

Esiste un mondo del lavoro sommerso dalle incredibili proporzioni nel settore dell’assistenza agli anziani e dei collaboratori familiari.
Quante persone han deciso di ricorrere, per periodi più o meno lunghi, a badanti o COLF assunte “in nero”? Alle volte il rapporto tra datore di lavoro e dipendente si incrina ed esiste, pertanto, sempre la minaccia latente che il lavoratore inizi un giudizio per far accertare l’esistenza di un rapporto sommerso, chiedendo tutte le differenze retributive e la regolarizzazione contributiva. Nel caso di rapporti di lungo periodo durati molti anni, le somme domandate possono essere dell’ordine di decine di migliaia di Euro.

La badante o la COLF deve dimostrare in giudizio l’esistenza del rapporto di lavoro nero. Potrà ricorrere a prove testimoniali (ad esempio parenti che conoscevano il datore di lavoro e possono confermare che prestava la propria attività in certi giorni della settimana) e prove documentali (ad esempio lettere o e-mail scambiate col datore di lavoro).

Nel mondo attuale in cui un cellulare con videocamera costa anche meno di 100 Euro, si assiste a un numero crescente di videoriprese effettuate di nascosto dal lavoratore domestico all’interno del domicilio del datore di lavoro al fine di dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro sommerso.
Frasi quali “il prossimo mese ti pago anche la tredicesima in contanti” oppure “sei 3 anni che sei qui, ma preferisco non regolarizzarti così risparmiamo” possono venire immortalate in un video assieme ai luoghi di lavoro all’interno del domicilio del datore di lavoro (ad esempio sullo sfondo si vede la lavatrice con la pila di vestiti da lavare).

In casi simili viene in rilievo l’art. 615 bis del Codice Penale che stabilisce:
Chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.
Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo.

I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d’ufficio e la pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato.

Il presente articolo intende rispondere alla seguente domanda: nel caso in cui il lavoratore produca i video che riprendono i luoghi di lavoro (presso la privata dimora del datore) all’interno del procedimento davanti al giudice civile, al fine di provare il rapporto di lavoro “nero”, commette il reato di cui all’art. 615 bis del Codice Penale?

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Sul punto non esistono risposte univoche.

Merita citare la sentenza num. 46158 del 2019 della Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito, in un caso simile, che il fatto non sussiste, in quanto nel caso in esame la collaboratrice era presente al momento della registrazione ed aveva diritto di accedere ai luoghi di privata dimora; non erano state riprese scene di vita intima, ma solo gli ambienti e gli arredi; e l’utilità di tali video era limitata unicamente alla necessità di difendersi all’interno di un procedimento davanti al Giudice del Lavoro.

Tuttavia, va evidenziato che la sopramenzionata sentenza annulla la decisione della Corte di Appello di Torino che aveva confermato la condanna a carico di una collaboratrice familiare a 4 mesi di reclusione emessa dal Tribunale Penale di Torino. Pertanto, esistono giudici di merito che ritenevano e ritengono che tale condotta integri il reato di cui all’art. 615 bis del Codice Penale.

Non vi è alcun dubbio che siamo in una di quelle materia in cui molto è rimesso alla sensibilità del singolo magistrato.

In linea di massima, basandosi sui principi di diritto espressi dalla sentenza 46158 del 2019 della Suprema Corte di Cassazione, si può affermare quanto segue:
1) se il lavoratore è presente durante la registrazione ed ha diritto di accedere ai locali della privata dimora;
2) se le riprese si limitano a luoghi ed oggetti e non coinvolgono la vita intima delle persone;
3) se la produzione in giudizio è volta unicamente ad accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro nero (o comunque per agire/difendersi davanti al giudice civile)
è molto probabile che, almeno in Cassazione, venga dichiarata la non sussistenza del fatto (e dunque l’assoluzione dell’imputato con formula piena).

Non si può comunque escludere che qualche giudice di merito reputi che il fatto è penalmente rilevante, in quanto accede ad una interpretazione molto più letterale della norma penale. Purtroppo, la giurisprudenza non è, diversamente dalla fisica, una scienza esatta.

Avv. Gianluca Teat

Autore del Breve manuale operativo in materia di licenziamenti, 2018 (Seconda Edizione), Key Editore
Coautore di Corte Costituzionale, Retribuzioni e Pensioni nella Crisi. La sentenza 30 aprile 2015, n. 70, 2015, Key Editore

Potete contattarmi via e-mail all’indirizzo avv.gianluca.teat@gmail.com oppure attraverso il mio profilo Facebook Avv. Gianluca Teat o visitare il mio sito internet
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