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VIRUS, VIRI di Claudia Marin [concorso letterario]

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Concorso Letterario de “La Voce di Venezia”. Prima edizione: “Racconti in Quarantena”

15 aprile 2020. L’appuntamento fisso da ormai settimane è alle 18 ore italiane, 17 ore inglesi. Accendo il computer e vado alla sezione notizie; ecco il bollettino del giorno, ecco quante anime ha preso il fantomatico virus. “Corona”, “Covìd”, “Còvid”, “el virus”, “Covid-19”: abbiamo tutti deciso il suo soprannome preferito, inconsciamente eccitati della tragedia, come fosse un medical drama, alla ricerca della sensazione in mezzo a questa vita rafferma. È bastato un piccolo organismo a farci dimenticare degli altri, a chiudere frontiere e riversare nel mare tutta la plastica che a fatica stavamo rimuovendo. I cavallucci marini abbandonano i cotton-fioc per le mascherine ffp3, ma almeno lo smog è sparito. È bastato un piccolo organismo a farci diventare agnelli indifesi, automi senza capacità critica messi a tacere da una mascherina made in China. Dopo La7, arriva il momento di BBC One.

Ho l’occasione di osservare da vicino come due nazioni, Italia e Inghilterra, stiano affrontando l’emergenza. Ho l’occasione di avere uno sguardo esterno per entrambe, di vedere falsità e contraddizioni. Il Veneto che litiga con il governo centrale, la Scozia che come sempre fa i capricci. Tutto mondo è paese, ma paese che vai, usanze che trovi. Il motto “Andrà tutto bene” qui in Inghilterra è “Thank you NHS”: l’ottimismo lascia il posto alla gratitudine nei confronti del personale negli ospedali. Ma anche la politeness inglese ha le sue ombre. Passo le giornate a studiare con una costante rabbia. L’università è stata chiusa, i corsi online si rivelano fallimentari: mi immergo nelle parole di libri e nelle attese di lievitazione del pane, a consolarmi.

Più i giorni passano, più tutto sembra cadere verso una falsità degna di questo secolo: i motti esausti diventano hashtag su Instagram, ci si rende conto che il mondo non andrebbe avanti senza spazzini e agricoltori, e con senso di colpa si aggiunge “Thank you NHS and key workers” sui cartelloni e sugli striscioni. I numeri diventano cifre senza senso da ascoltare la sera seduti in divano, con un poggiapiedi fatto di pacchi di carta igienica – ne abbiamo comprati tanti, non si sa mai. Il mondo virtuale diventa sempre più il sostituto del reale. Arcobaleni riempiono la bacheca Facebook, ma non si può uscire per vederne uno vero. I leoni da tastiera danno il meglio di sé postando su internet foto di anziani che rompono la quarantena andando in spiaggia alle sei del mattino, mentre le influencer e le ragazzine si fotografano in reggiseno sullo specchio del bagno, #iorestoacasa. Il politically correct non permette una lucida analisi della realtà e i governi vanno avanti con la dittatura d’eccezione. Conferenze stampa di medici in disaccordo con la linea politica vengono censurate su Youtube: inizia la lotta per fermare il virus, inizia la lotta per la libertà di pensiero, uccisa anche questa dal Corona.

Il mondo privato entra in televisione: giornalisti su Skype mostrano le loro librerie, i loro salotti. Ci siamo stufati di ascoltare, veniamo distratti dalle loro case. È più divertente osservare lo sfondo: “Quello lo ha comprato da Ikea”, “Ce l’ho anche io quell’edizione”, “Ecco, così vorrei la cucina”. E nel mentre, ordiniamo quel che ci serve su Amazon.

Piano piano, tutto torna alla “nuova normalità”, espressione spompata e ormai stantia coniata da Bill Gates, eccitato anche lui dalla tragedia, dalla corsa al vaccino. La nuova normalità fatta di restrizioni e normative, perché sotto sotto non si ha fiducia nel “buonsenso degli italiani”. Nuova normalità: mascherine, kit usa e getta, distanziamento sociale. All’improvviso l’erre con zero diventa meno importante dell’economia, e i due metri diventano uno.

L’Inghilterra è circa tre settimane indietro rispetto all’Italia: mi sembra di essere una veggente e sento l’eccitazione di avere il controllo degli eventi. Il futuro diventa passato. Incontro al supermercato una signora svizzera, mia vicina di casa in terra straniera: con il suo accento marcato e a un metro di distanza, mi racconta che non ha paura del virus, perché la guerra e la povertà erano peggio, e lei con la mascherina proprio non riesce a respirare, e poi, se arriverà il suo momento, la sua lunga vita l’ha fatta, e potrà riabbracciare suo marito, lassù. Mi racconta che un’amica è morta d’infarto qualche settimana prima, da sola, in una stanza in una casa di riposo, bardata di plastica come fosse un petto di pollo sul banco frigo. E con una lacrima sulla guancia mi saluta e se ne va, augurandomi buon viaggio per il mio ritorno in Italia.

Prendo il primo volo disponibile a luglio. Abbraccio mia madre e mio padre dopo sei mesi – il virus non è così importante ora. Provo ancora una costante rabbia nei confronti di questa nuova realtà, fatta di termini inglesi incompresi e litigate su Facebook. Gli occhi sono puntati su Brasile e Stati Uniti ora, ma nessuno si chiede come mai Svezia o Giappone stiano meglio, nonostante le misure meno restrittive. I piccoli negozi sono costretti a chiudere definitivamente, le grandi catene di supermercati sono più forti che mani. La discussione su mascherine egoiste e generose si perde nella scelta della fantasia: meglio la bandiera italiana di Salvini o l’eleganza del nero di Conte? L’estate sta arrivando, meglio un bel tessuto afro. Si iniziano a scoprire le frodi degli ospedali, le truffe. Ma andrà tutto bene.

Ora riesco a vedere dall’interno tutte le contraddizioni: a quanto pare il virus si propaga più facilmente tra i libri in biblioteca che in una discoteca. La ricerca si blocca ma il reggaetón continua. L’amarezza si fa spazio nel mio cuore. Sotto la mascherina, non sorrido. E mentre alla radio passa il nuovo tormentone estivo, mi chiedo quando l’uomo la smetterà di avere paura di sé stesso.

 

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