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TIAN FRA LE STELLE di Isabella Piccini [concorso letterario]

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TIAN FRA LE STELLE di Isabella Piccini [concorso letterario]

Era il 12 maggio 2020. La vita per tutta l’Italia a passo di lumaca stava ritornando verso la normalità. Le giornate sembravano passare sempre più lente come se anche il sole fosse in quarantena e facesse fatica ad andare avanti. Ogni tanto avevo l’impressione che tutto si fermasse.

Come se oltre la finestra vedessi solo la fotografia del mondo congelato nel tempo. Avevo paura che se avessi aperto quella lastra di vetro separatrice, ogni cosa sarebbe risultata un sottile foglio di carta colorato. Un disegno di un artista famoso per le sue straordinarie doti che al tocco gentile delle mie dita si sarebbe frantumato. Tuttavia la natura continuava il suo corso e se fosse stato solo il riflesso della realtà o un sogno illusorio io non l’avrei mai scoperto.

Il tempo passava come tutti i monotoni giorni, i fiori sbocciavano e infine appassivano come la mia mente che si perdeva tra gli innumerevoli cicloni dei pensieri. Mi fermavo spesso a fissare il vuoto con la mano che sorreggeva la testa e che secondo dopo secondo diventata più pesante, come se tutti i ricordi e i pensieri che nascondeva avessero improvvisamente acquisito chili. La gola si faceva stretta, il respiro si spezzava a metà e gli occhi inumidendosi iniziavano a far sgorgare le loro piccole lacrime che si rincorrevano e a volte riuscivano a stringersi in un grande abbraccio che le rendeva più grandi. Camminavo per le stanze della casa senza saper bene cosa fare o dove andare dimenticando improvvisamente cosa aveva appena pensato. Per distrarmi decisi di cercare su internet la ricetta di un dolce.

Mi vestii lentamente prendendo le prime cose che avevo nell’armadio disordinato come il resto della camera, poi indossai la mascherina e uscii per andare a prendere alcuni ingredienti di cui avevo bisogno. Alzai la testa e mi accorsi che nemmeno una nuvola dipingeva il cielo azzurro.

Il sole splendeva forte e accarezzava la pelle con i raggi che facevano brillare i miei occhi marroni come le castagne. Assaporai la freschezza dell’aria da dietro la mascherina che faceva leggermente sudare il viso e mi sentii per la prima volta dopo tanto tempo un po’ più libera. Mentre camminavo mi resi conto della bellezza della cose che non ero mai riuscita ad ammirare veramente.

Osservai il movimento delle api che danzavano sospese nel vuoto e si posavano delicatamente sopra ai fiori. Fermai quel momento nel tempo scattando una foto per paura di dimenticarlo il giorno in cui tutto sarebbe ripartito come prima.

Quel giorno in cui nessuno avrebbe più fatto caso alle piccole cose importanti che ci circondano e fanno la differenza. Dove sono i vestiti che indossa una persona a dimostrare il suo valore e i bambini vogliono abbandonare la famiglia per il loro “amore” virtuale, l’amicizia è camminare insieme dietro allo schermo del proprio cellulare, dove nessuno ha tempo per fermarsi a pensare due secondi, regalare un sorriso, piangere o dare un abbraccio.

Quel momento in cui la pizza arriva prima dell’ambulanza e le file in macchina accompagnate da bestemmie sarebbero ricominciate. Quel giorno in cui al telegiornale non avremmo più sentito parlare solo del virus che stava mangiando il mondo ma anche della violenza sulle donne. Il giorno in cui avremmo ricordato che esistono altre malattie e tutte quelle persone che aspettavano di essere operate avrebbero avuto una stanza dell’ospedale finalmente libera, pronta a decidere il loro destino.

Camminando per le strade della mia città avevo imparato a capire il linguaggio degli occhi, a scorgere un sorriso, la paura, la timidezza, la voglia di un abbraccio e di affetto che poteva essere dato solo in parte. La bellezza degli occhi, le loro infinite forme, i colori che cambiano al variare della luce e dei sentimenti. Loro che possono essere la porta d’entrata per capire una persona, ma anche uno scudo.

Presi i pochi ingredienti di cui avevo bisogno e a malincuore tornai a casa. Svuotai la busta di plastica e cominciai a mischiare le sostanze. Mi chiusi in me stessa ascoltando il silenzio che abitava la casa, il quale a volte faceva più rumore di quel che si può pensare.

La mia coinquilina Alyssa, nonché mia migliore amica, era tornata a Roma prima del lockdown per incontrare i suoi parenti. Alle 5 del mattino indossammo la mascherina blu e accompagnata da una sua valigia guidai veloce verso la stazione. Ricordo le canzoni dei Nirvana in macchina e le sue forti risate. Arrivate davanti al treno mi abbracciò forte saltellando, poi guardai partire il Freccia rossa e la salutai con la mano da dietro al finestrino.

Era sempre allegra. Mi ricordava tanto la classica ragazza tedesca con gli occhi azzurri come il cielo e i capelli lunghi color grano. Ci conoscevamo dall’età di 3 anni e da quel giorno eravamo sempre state insieme. Non smetteva mai di parlare ed era sempre pronta ad aiutare gli altri, aveva lo spirito ribelle sempre in cerca di nuove avventure come quei bambini che nonostante abbiano paura dei fantasmi il giorno di Halloween vanno alla scoperta di essi nelle case abbandonate. I pensieri si fermano improvvisamente.

Fissai l’impasto. Le braccia si immobilizzarono, poi, chiusi gli occhi per pochi secondi e respirai profondamente. Il cuore correva e faceva fatica a calmarsi. La suoneria del cellulare che annunciava nuovi messaggi mi riportò alla triste realtà e mi sentii come quando dopo un sogno illusorio l’uomo si sveglia e deve fare i conti col vero mondo. Stordita iniziai a cercarlo. La luminosità troppo alta mi riportò definitivamente sul pianeta terra. Cominciai a scorrere e a leggere uno ad uno gli innumerevoli messaggi. Insulti dopo insulti sporcavano le mie foto Instagram perché l’epidemia che aveva incarcerato l’Italia e non solo, proveniva dalla Cina.

Rimasi inorridita e riuscirono quasi a farmi venire i sensi di colpa. Io che mi ero sempre sentita di troppo, che mi sentivo forte, quanto fragile. Li lessi varie volte perché non potevo capacitarmi che nel ventunesimo secolo ci fossero ancora tanta ignoranza e odio. Quel secolo in cui il colore della pelle, la lingua e la forma degli occhi dovrebbero essere un sintomo di bellezza e non di colpa o di inferiorità. Mi resi conto che il processo di globalizzazione era arrivato quasi al suo ultimo stadio.

Le tecnologie si erano evolute, le distanze accorciate, i mezzi di trasporto erano diventati potenti ed efficaci. Eppure le uniche cose che non erano mai mutate, migliorate, erano la crudeltà della mente umana, l’ignoranza che colpisce ogni piccola parte del cervello e lo fa marcire, lo trasforma in una potentissima macchina da guerra, in un cannibale. Mi chiamo Hua Cheng. Sono di origini cinesi ma vivo in Italia. Abito in un mondo fatto di illusioni e grandi speranze quasi irrealizzabili.

Mi piace sognare e pensare che tutto ciò che desidero un giorno possa avverarsi. Uscire di notte semplicemente per parlare alle stelle ed imprimerle sulla carta. Lanciare messaggi al mondo perché non restano gli umani ma solo le storie. Quel giorno infatti decisi di raccontarmi, di parlare della mia storia d’amore. Quell’amore che come il virus non riconosce razza e si accende anche nei cuori più ignoranti, che sconvolge, illude, muore. Incontrai Tian Li un giorno in cui il sole sembrava spento.

Le nuvole minacciavano un forte temporale che sarebbe durato per qualche giorno. Il vento smuoveva i miei capelli neri che andavano a frustare il volto. Uscii velocemente dall’università sperando di arrivare in tempo per prendere il primo autobus che si fermava davanti alla mia casa color crema. Camminavo fissando i piedi cercando di non inciampare in qualche sassolino odioso sapendomi goffa e sempre distratta.

Poi iniziai a correre prendendo un po’ di fiato sorreggendo con le braccia alcuni libri scolastici che non entravano nel mio vecchio zaino. Riuscii ad arrivare presto. Salii su attraversando i corpi sudati riconoscendo alcuni volti. Poi scorsi un posto libero e mi sedetti. Lo vidi lì, accanto a me. Immobile come una statua che rimaneva pietrificata nel tempo nell’atto di guardare fuori dal finestrino. Aveva gli occhi quasi occidentali, neri e profondi come la tana del Bianconiglio in cui potevi cadere e non tornare più. Sembrava un mistero da risolvere.

I sudoku che ti tengono in ansia per ore finchè non riesci a trovare la soluzione. All’improvviso mi guardò nervosamente. Accennai un sorriso che lui evitò per tornare ad essere catturato nel suo mondo abitato dai pensieri. Rimanemmo in silenzio per tutto il tragitto finché lui non scese in via Napoleone. Da quel giorno lo vidi ogni mattina per i corridoi della scuola e diventò l’unico motivo che mi invogliava ad andare al primo anno di università. Cominciai a chiedere informazioni alle mie amiche riguardo a quel ragazzo misterioso e scoprimmo che si era trasferito da poco.

Iniziammo a scambiarci qualche parola in autobus ma la timidezza lo mordeva da un momento all’altro facendolo quasi scomparire dal pianeta terra. I suoi vestiti profumavano di caffè e acqua di colonia. Distoglieva sempre lo sguardo per puntarlo nervosamente a terra. Annuiva alle mie parole per semplice correttezza ed io continuavo a parlare perché sapevo che se avessi smesso l’avrei perso ancor di più. Imparai a capirlo e lui a darmi le attenzioni che meritavo. Ogni volta che gli stavo accanto il cuore saltellava e le farfalle svolazzavano per tutto il corpo.

Alyssa ed io lo facemmo entrare nel nostro gruppo di amici e quando uscivamo lui si aggregava pronto a bere qualche cocktail perché sapeva che sarebbe riuscito a socializzare di più. Dopo due mesi nacque la nostra storia d’amore e tutta quella sua timidezza in mia presenza iniziò quasi a scomparire. L’unica cosa che però non capii mai completamente era il segreto che nascondevano quegli occhi che avevano buttato via la chiave di accesso a quell’anima fragile. Mi piaceva passare il tempo con lui parlando di cose insensate per il resto della gente ma non per noi. Ascoltavamo la stessa musica e amavamo tradurre i testi delle canzoni sottolineando le frasi che sembravano parlare della nostra vita.

Correre per le strade affrontando il vento e ridere fino a che la pancia non scoppiava e il fiato si accorciava. Mangiare la pizza al tramonto e fare corse in macchina verso luoghi ignoti fino all’alba. Litigare per cose stupide per poi abbracciarsi sapendo che uno dei due aveva esagerato. Il 9 marzo l’Italia entrò in lockdown e dato che Alyssa era tornata dai suoi parenti Tian venne a stare da me. Undici giorni dopo l’atmosfera perfetta che si era creata fra di noi si ruppe. Come se tutto fosse stato solo un film e il telespettatore avesse spento la tv durante la scena più bella. Tian quel giorno iniziò a non sentirsi bene.

La febbre alta lo faceva sudare, non riusciva a respirare e il dolore al petto lo lacerava. Iniziai a preoccuparmi e a non sapere più come gestire la situazione. Chiamai subito un operatore sanitario il quale fece arrivare un’ambulanza. Questa non tardò ad arrivare e in quel momento mi parve di essere stata catapultata in un altro mondo, uno di quelli che puoi sognare di notte e che si trasformano in incubi, in mondi di cui uno scrittore potrebbe liberamente parlarne e decorare le pagine in modo del tutto originale.

Uscirono degli uomini vestiti di bianco. Dai loro occhi coperti dalla visiera scorsi un velo di paura misto a pietà abbastanza spesso da farmi sentire ancora più in allerta. Fecero il tampone a me. Il suo volto era imperlato di sudore e le mani magre gli tremavano.

Sembrava una triste foglia d’autunno che ad un soffio di vento minimo si spezza. Gli accarezzai il viso delicatamente, i nostri occhi si incontrarono e fu una delle poche volte che non sfuggirono al mio sguardo, poi mi prese la mano e la strinse con le poche forze rimaste. Una lacrima scese lungo il viso. Volevo sembrare forte come tutte le donne sanno essere per non rendere ancora più triste la situazione, ma in quel momento la paura e la tristezza mi inghiottirono e non mi lasciarono più andare. Tutti noi in quella stanza da set cinematografico sapevamo che il film molto probabilmente non avrebbe avuto un lieto fine.

Gli operatori caricarono Tian sull’ambulanza e affermarono che avrei ricevuto presto notizie sul tampone e sulla sua salute, ma nel frattempo dovevo restare in quarantena per 14 giorni. Chiusi la porta d’ingresso dietro di me e cominciai a camminare per la casa trascinando i piedi uno dietro l’altro come un sonnambulo brancolante nel buio. La paura come un’ombra assassina mi stava col fiato sul collo. Poi puntò il coltello sulla schiena facendola rabbrividire e il suo respiro strisciò viscido come un serpente verso la giugulare pronto a strozzarmi e dare così il colpo finale. Caddi a terra. Chiusi di colpo gli occhi cercando di svegliarmi da quell’incubo, poi il sonno mi rapì.

Entrò svelto come il miglior maratoneta e non sapevo se la mattina dopo avrei avuto la voglia di aprirli. Il giorno seguente chiamarono dall’ospedale poiché ero risultata positiva al Covid 19 nonostante non si manifestassero i sintomi. Chiesi subito notizie di Tian ma la risposta fu solo un lungo silenzio seguito dal suono della chiamata terminata. Fu così per il resto dei giorni. Nessuna telefonata in arrivo dall’ospedale permetteva di risvegliarmi dai pensieri che ora dopo ora afferravano la mente con artigli affilati pronti a divorarmi come l’uomo nero, aspettando che la mamma esca dalla stanza dopo la favola della buonanotte. Alyssa ogni giorno mi chiamava e dato che in precedenza era stata strettamente a contatto con me fu messa in quarantena. Passavamo le ore in videochiamata cercando di trascorrere il tempo e pensare positivo ma nonostante questo nessuna delle due riusciva a sorridere e a crederci davvero. La sera del 5 aprile mi ritrovai a fissare un piatto di riso alla Cantonese facendo scivolare la forchetta tra i chicchi di riso bianco splendente quando all’improvviso la suoneria del cellulare mi fece balzare sulla sedia.

Riconobbi immediatamente il numero dell’ospedale. Una signora dalla voce roca e stanca iniziò a parlare lentamente scandendo ogni parola e a causa di quelle lettere ogni mia speranza si frantumò come un grosso castello di vetro. A malincuore annunciò la sua morte. Tian era stato quindici giorni in terapia intensiva ma le risposte alle cure non erano state positive. Il fiato mi si mozzò in gola e la rabbia scatenò il cuore.

Riattaccai senza dire una parola. Posai piano il telefono cercando di realizzare ciò che mi era stato appena detto poi mi lasciai scivolare a terra sorretta dal muro della mia spoglia cucina. Iniziai a piangere, pur sapendo che quelle lacrime non avrebbero creato un ponte verso il cielo per riportarlo in vita. Mandai un messaggio ad Alyssa per informarla dell’accaduto e alla mia famiglia che era bloccata a Wuhan da gennaio. Mi sentii sola. Come se una parte di me fosse volata via insieme a lui. Quella mia piccola, grande parte forte che apprezzava più di tutte.

Spensi il cellulare per starmene in compagnia dei miei pensieri e delle lacrime che sgorgavano come una grande cascata lungo il letto del mio corpo. Tian morì solo. Lui che temeva la solitudine perché pensava di non piacere agli altri. In fondo forse doveva andare così. Fin da piccola non avevo mai creduto all’esistenza di un Dio come quello occidentale.

Quell’essere buono che ci guarda e protegge. Avevo sempre pensato che se fosse stato veramente così non avrebbe mai portato via ciò che era a noi più caro. Credevo nell’esistenza di un essere maligno. Il destino. Qualcosa di soprannaturale, un grosso “Giocoliere delle anime” che si diverte con il nostro mondo come fosse una pallina ridendo di noi stupidi esseri viventi che ci affanniamo pensando di poter cambiare il destino.

Lui ci guarda e con le lunghe mani nere composte da dita affilate gioca con le clessidre su cui è scritto il nostro nome regolando a suo piacere il tempo di felicità e tristezza che deve toccare ad ognuno. Egli passa il tempo così: fumando un sigaro che si spegne e si trasforma in cenere tutte le volte che spezza una vita. Siamo la sua interminabile serie televisiva e il mondo non è altro che una sfera di cristallo sospesa nel buio.

Sapevo di essere stolta e fragile come tutti gli altri. Ridiamo, viaggiamo, studiamo e cerchiamo sempre di avere un posto importante nel mondo per essere ricordati quando in realtà nessuno di noi lo sarà. Siamo solo marionette manipolate da fili invisibili che vivono in case diverse pensando che siano state scelte da noi stessi. La clessidra di Tian era scomparsa e il sigaro del “Giocoliere” diventata cenere. Rimasi per qualche settimana chiusa in casa.

Avevo il terrore di dimenticare Tian. Dopo la sua morte riordinai tutti gli oggetti che aveva lasciato a casa mia e la maggior parte li conservai. Ogni tanto annusavo le magliette per non dimenticare il suo profumo che mi piaceva tanto. Misi tutto in una scatola eccetto i maglioni e le tshirt che avevo in programma di indossare. Lasciai in bagno la sua acqua di colonia preferita e cominciai a versarne alcune gocce sulle magliette. La sera guardavo le nostre foto ma col tempo lo sentivo sempre più lontano. Gli abiti non avevano il suo vero profumo e le immagini dei nostri ricordi diventavano più sgranate. Tuttavia durante quelle settimane non mi sentii completamente sola.

I miei vicini si resero disponibili chiedendomi sempre se avevo bisogno di qualcosa e ogni tanto suonavano al campanello per portarmi alcuni dolci fatti in casa. Alyssa ogni giorno mi mandava un messaggio e iniziò a spedirmi la spesa a casa. Mi inviava video divertenti provando a tirarmi su e ricordandomi che sarebbe tornata presto per starmi vicina. Dopo un po’ di tempo il “Giocoliere” decise di girare la mia clessidra sul lato della felicità. Ricominciai a vivere da stupida umana ridendo con Alyssa in videochiamata, aspettando il suo ritorno e andando in cerca di avventure come lei. Lo feci per me e per Tian.

La mia famiglia riuscì finalmente a tornare da me e confermai la bellezza del valore di un abbraccio. Mentre la gente ricominciava con la vita caotica io decisi di fare ciò che Alyssa e i vicini avevano fatto con me. La mattina preparavo pasti caldi e gustosi per i clochard scoprendo il vero significato di solidarietà e a donare per i bambini malati nel mondo provando ingenuamente a cambiare il loro destino sfidando il “Giocoliere”.

Il nome di Tian in italiano significa “cielo”. Quel cielo dove il virus l’ha condotto a 21 anni. Quello che copre la testa di noi insignificanti esseri umani che riconoscono razze e religioni. “Questa è la mia storia d’amore ai tempi del covid 19, quell’amore che come il virus non riconosce razza e si accende anche nei cuori più ignoranti.” Postai la mia storia su Instagram e uscii in terrazzo.

Ormai si era fatta notte e le stelle dipingevano il cielo scuro come tanti schizzi luminosi sulla tela di un pittore dalle doti straordinarie. Lo guardai. Fra le lacrime accennai un sorriso e capii che adesso Tian non era più solo.

 

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