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TI CONOSCO MASCHERINA di Danila Barel [concorso letterario]

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Concorso Letterario de “La Voce di Venezia”. Prima edizione: “Racconti in Quarantena”

Era una serena giornata di febbraio e Chiara, come faceva spesso la domenica, era indaffarata a preparare le lasagne, un piatto apprezzato da tutta la famiglia e che per questo le regalava grandi gratificazioni. Alice, la figlioletta di cinque anni, ne andava matta; adorava soprattutto la besciamella, tanto che aspettava con impazienza che la mamma versasse nella teglia l’ultimo strato della deliziosa crema per poi impossessarsi della pentola e con un cucchiaino, e tanta calma, grattarne le pareti e il fondo per raccogliere tutto il contenuto rimasto inutilizzato e mangiarselo con gusto.

Purtroppo papà Angelo non avrebbe pranzato insieme alle sue amate donne; lui faceva l’anestesista ed era stato chiamato in ospedale per un’urgenza. Chiara era abituata a questo tipo di evenienze; con una professione, o meglio una missione, come quella del consorte, certe circostanze erano inevitabili. E così, non appena il timer del forno suonò avvisando che le lasagne erano pronte, mamma e figlia si misero a tavola e, tra un boccone e l’altro, seguivano con particolare interesse l’entusiasmante Volo dell’Aquila trasmesso in diretta da Piazza San Marco. Alice era affascinata da quelle immagini reali che non avevano nulla da invidiare alle più strampalate scene da cartone animato: quell’uomo buffo, ricoperto di carte da gioco, con una grande ala rossa a forma di cuore sulle spalle, che volava dal campanile sciando nell’aria, era davvero comico, e anche un po’ sciocco: «Mamma, guarda, continua a sciare e non si è accorto che non c’è la neve!», esclamò divertita la bimba.

«Ha ragione, tesoro, ma il Carnevale è così, un po’ pazzerello. Martedì quando andremo alla sfilata dei carri mascherati, di gente strana ne vedremo tanta!»
Chiara non poteva immaginare che da lì a qualche ora sarebbe stato dato il clamoroso annuncio della sospensione del Carnevale di Venezia, e non solo. Ma no, non era possibile! Come si potevano annullare tutti i festeggiamenti proprio all’apice del loro svolgimento? E cosa dire alle migliaia di turisti arrivati in laguna da tutte le parti del mondo? La decisione seminò sconcerto; molti, di primo acchito, la considerarono una follia, una scelta sconsiderata, perché, nonostante le notizie preoccupanti sui contagi, divulgate nei giorni precedenti, in pochi avevano colto la gravità della situazione. Negli ospedali, al contrario, gli effetti tragici erano già evidenti, tanto che la normale routine stava completamente saltando, sopraffatta da una nuova pressante priorità.

Quella che per Angelo doveva essere un’urgenza come tante, si rivelò alla fine un’emergenza straordinaria, che andava affrontata non solo sul piano professionale, ma anche su quello privato. La sua fu una decisione sofferta ma inevitabile; il rischio di portare a casa il subdolo virus era elevato e non voleva nemmeno lontanamente pensare di poter contagiare la sua piccola Alice: per lei, che era affetta da epilessia rolandica, un’influenza così violenta avrebbe sicuramente peggiorato la patologia. Questa considerazione bastò per convincerlo a trasferirsi in un appartamento sfitto che un collega gentilmente gli mise a disposizione.

Nella tarda serata di quel fatidico ventitré febbraio Angelo rientrò a casa per l’ultima volta; si trattenne lo stretto necessario per prendere dei cambi di biancheria e salutare la moglie: «Stai tranquilla, è solo una precauzione, forse un eccesso di zelo, ma è meglio essere cauti.», le disse, cercando di rassicurarla, totalmente ignaro di come si sarebbe evoluta l’epidemia e delle conseguenze che avrebbe arrecato.

Chiara spiegò ad Alice che il papà sarebbe dovuto rimanere in ospedale per un po’ di tempo, perché c’erano tanti ammalati che avevano bisogno di lui e la bimba non si mostrò per nulla contrariata: «Il mio papà è il più bravo di tutti, ecco perché hanno chiamato lui! », rispose con tenero e commovente vanto. Fortunatamente Angelo non udì quelle parole, altrimenti si sarebbe gasato non poco, affogato nel dolce brodo di giuggiole.

Arrivò il martedì grasso, i carri mascherati erano saltati, ma era giusto onorare ugualmente quel giorno che doveva essere gioioso e spensierato; Alice indossò il suo costume da Minnie, Chiara le truccò il viso e insieme uscirono a fare un’allegra passeggiata fino alla casa dei nonni che, inutile dirlo, non vedevano l’ora di stare con la loro nipotina. Mancava solo papà Angelo e la festa sarebbe stata perfetta.

Chiara invitò Alice a sedersi accanto a lei sul divano, prese il telefono e le disse: «Adesso facciamo una videochiamata al papà. Gli parli tu, fai la voce grossa e gli dici “Buonasera dottore”, vediamo se ti riconosce.» La bambina non stava nella pelle e seguì alla lettera le istruzioni della mamma. Angelo stette al gioco, fece l’espressione perplessa, col mento appoggiato a una mano finse di concentrarsi per capire chi fosse l’interlocutore e dopo pochi interminabili secondi, si lasciò andare a un sorriso che riempì lo schermo: «Ehi, ma io ti conosco mascherina, tu sei la mia Alice!» La bimba saltò sul divano con le braccia alzate in segno di piena soddisfazione e felicità; il gioco era non farsi riconoscere, ma lei, in fondo, voleva proprio essere riconosciuta dal suo adorato papà e quel quadretto familiare, forse banale, ma intriso di tenerezza, era destinato a rimanere un ricordo indelebile.

Le giornate passavano e con loro, inesorabilmente, se ne stava andando anche la serenità, mentre la quotidianità veniva completamente stravolta. Il lockdown era iniziato da pochi giorni e Angelo, disturbato da una tosse insistente e fastidiosa, ricevette la conferma di quello che temeva: il tampone era positivo! Nonostante le attenzioni quasi maniacali e i dispositivi utilizzati seguendo tutti i protocolli, quel maledetto virus era riuscito a trovare una via per colpirlo.

Chiara fu ovviamente scossa dalla notizia, ma, vedendo che il marito non era preoccupato, si lasciò convincere che sarebbe andato tutto bene. Ad ogni video-chiamata, però, Angelo appariva sempre più sofferente; poteva mentire a parole, ma il suo aspetto era alquanto eloquente. Qualche giorno dopo, il suo quadro clinico si aggravò e fu necessario il trasferimento in terapia intensiva. Fu Carlo, un collega e caro amico, a informare Chiara. Lei non disse nulla, chiese solo di poterlo andare a trovare in ospedale, ma Carlo fu categorico: era assolutamente vietato e non erano ammesse eccezioni, nemmeno per la moglie di un medico.

Quello fu l’inizio di un calvario che si concluse una fresca mattina di primavera, quando Angelo, in silenzio e in solitudine, se ne andò. Per i dati epidemiologici fu un’altra vittima che si aggiungeva al già lungo elenco, per Chiara fu un dolore lacerante e inconsolabile, un colpo inferto a tradimento, ingiusto e inaccettabile. Si fece forza, senza comunque farsene una ragione, solo per amore di Alice, alla quale decise di non dire niente. Non avrebbe saputo come affrontare il discorso e preferì rinviare il problema, non più certa che sarebbe andato tutto bene.

Le disgrazie, infatti, non arrivano mai da sole. Una notte Alice cominciò ad agitarsi nel sonno; Chiara si avvicinò e si accorse che stava avendo uno dei suoi attacchi epilettici; le contrazioni dei muscoli facciali erano lievi e durarono pochi secondi. Alice non riusciva a parlare; era lì, ammutolita e immobile a fissare il vuoto. Solitamente le crisi si esaurivano nell’arco di pochi minuti. Ma era già passato un quarto d’ora e lo stato di coscienza non si era ancora ripreso. Chiara allora la prese in braccio, la caricò in auto e si diresse al pronto soccorso. Si premurò di metterle la mascherina; temeva potesse darle fastidio, magari impedendole di respirare bene, ma fortunatamente Alice non diede alcun segno di insofferenza e Chiara ne fu sollevata.

L’attesa al pronto soccorso non fu lunga; Chiara era esausta; stringeva la mano della sua bambina, le parlava, ma lei continuava a non rispondere. Finalmente arrivò il dottore, dentro una tuta bianca, armato di occhiali, visiera, mascherina e guanti. Altro che sindrome da camice bianco! Qui lo spavento era assicurato e ampiamente giustificato. Il dottore si avvicinò ad Alice e, proprio per rompere il ghiaccio e conquistare la sua fiducia, le appoggiò una mano sulla pancia, si chinò su di lei e le disse: «Ma io ti conosco mascherina!» La reazione fu immediata: «Papà, sei tu?!»

In un attimo scoppiarono nella stanza emozioni travolgenti e sconvolgenti: la felicità incontenibile di una bambina che, dopo tanto tempo, credeva di aver ritrovato il papà, la gioia di una mamma per la guarigione della figlioletta, lo strazio di una moglie nel ricadere nel prepotente vuoto lasciato dalla perdita del compagno e l’inaspettata contentezza di un giovane uomo nel sentirsi chiamare “papà”.

 

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