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STORIA DI UN POMERIGGIO IN FILA di Fabio Cerino [concorso letterario]

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Concorso Letterario de “La Voce di Venezia”. Prima edizione: “Racconti in Quarantena”

Milano, 21 marzo 2020

Ore 14:00. Mi metto le scarpe, controllo la lista, verifico l’autocertificazione, prendo portafogli, chiavi, carrellino e tre buste rigide.

Ore 14:09. Esco.

Mi incammino. In strada non c’è nessuno. Vedo un tram passare. Il conducente mi guarda. Non ho la mascherina, mi guarda per quello, penso. Il tram è vuoto. Mi appresto ad attraversare. Abituato, controllo che non passino auto, ma le auto non ci sono. Vedo il supermercato. Vedo la fila. Non salgo sul marciapiede. Resto sulla strada. Hanno tutti la mascherina. È meglio così penso, non mi avvicino, così non mi giudicheranno. Mentre cerco di capire dove finisce la fila, capisco che ho affrettato il passo, come se il traguardo fosse mettersi in fila. Arrivo. Incrocio lo sguardo con una signora che sarebbe arrivata prima di me se non avessi accelerato. Non le dico nulla, ma le faccio un gesto, come per dirle se vuole andare avanti. Mi ringrazia, dice di no e si mette dietro, a debita distanza. Mi rendo conto che la fila è lunga. Sono penultimo. Non ho l’orologio. Non so che ore sono. Guardo le persone in fila indiana. Indossano tutti la mascherina. Guardano il telefono. Che spreco di tempo, penso. Possono guardarsi intorno, osservare ciò che li circonda e invece piegano la testa. Non parla nessuno. Per la prima volta mi accorgo del silenzio. Di cosa è. Eppure, siamo tutti là insieme. Ma lontani. Siamo tutti soli, da soli, penso. Ma stiamo insieme ora. È ironico, penso, che per sentire questo tipo di solitudine dobbiamo stare tutti insieme.

La fila avanza di qualche metro. Mi guardo attorno. Sul muro accanto a me scritte varie. Alzo la testa. Sul palazzo alla mia sinistra, sul marciapiedi opposto, sventolano alcuni tricolori. Sul palazzo a destra vedo un lenzuolo un po’ rovinato con un arcobaleno e la scritta un po’ sbiadita “andrà tutto bene”. Non lo so, penso. Oggi non mi sento così ottimista. Mi sento triste. Voglio essere triste.

La fila avanza di qualche metro. Guardo chi mi è davanti. Un ragazzo legge un libro. Ha la copertina rigida. Mi incuriosisce. Vorrei gridargli “cosa leggi?”. Ma non lo faccio. C’è troppo silenzio. È tutto molto tranquillo. Mi accorgo che riesco a sentire tutto. Tutti i rumori.

Mi volto. Non sono più il penultimo. Qualcuno parla a telefono. È un messaggio vocale. Non capisco l’accento però. Un signore che spinge un carrello pienissimo mi dà fastidio. Si sente solo lui ora.

La fila avanza di qualche metro. Sono al sole ora. È un sole primaverile, timidamente caldo. Lo guardo, chiudo un attimo gli occhi. Sento il rumore del carrello. Questa volta vuoto. Vedo persone che mi passano accanto e vanno verso la fine della coda. Riesco a sentire una voce. La signora sta registrando. È la sua risposta. È napoletana. È inconfondibile. Siamo ovunque, penso. Non mi volto. Sorrido.

Avanziamo ancora un po’. Scorgo sul marciapiedi opposto una pescheria. È chiusa. “I tesori del mare” recita l’insegna. È capovolta. Mi chiedo perché tutte le insegne delle pescherie sono a rovescio. Vedo una signora entrare in auto, una Mercedes Classe A, grigia, un vecchio modello. Mi chiedo dove va. Le vorrei urlare “spero sia per necessità”. Non lo faccio. Capisco che devo frenare questa improvvisa curiosità. Entra. Cintura. Motore. Retromarcia. Prima. Parte.

Guardo le altre auto. Sono piene di polvere, con tergicristalli ricchi di fogliame, e le ruote circondate da pezzi di foglie e pietre varie.

Avanziamo ancora. Sono sempre al sole. Non so che ore sono. Non ho l’orologio. Mi ricordo che ho il cellulare. Potrei vedere l’ora, penso. Non ho voglia. Diventerei come uno dei miei compagni di fila. Mi perderei tutto questo, penso. Questa banalità e disperazione e desolazione che sono troppo allettanti oggi, ora. Guardo il carrellino. Una coccinella si è appena poggiata sul manico. Senza pensarci troppo, caccio il telefono e faccio una foto. Non la controllo. Lo ripongo. La fila avanza di qualche metro. La coccinella vola. Non ho visto l’ora, penso. Poco davanti una ragazza si volta e chiede a un’altra un fazzoletto. Istintivamente poggio una mano sulla tasca, per vedere se li ho io. Non li ho. Non glieli potrei dare lo stesso, penso.

La fila avanza di qualche metro. Mi accorgo che un uomo raccoglie dei sassi. Non capisco che fa. Ha uno zaino sulle spalle e una maglietta a mezze maniche. È il ragazzo che leggeva il libro. Non riesco a leggere il titolo. Perché ha raccolto i sassi?

La fila avanza di qualche metro. Mi accorgo che il marciapiedi è particolarmente sporco. Capisco perché. A sinistra un lampione e sulla destra, su un davanzale, un piccione. Non si accorge di me. Ma io sì. Si anima. Resta sul davanzale, guarda in casa. Una signora con un carrello sorride tra sé mentre lo supera. Lavora al supermercato. Starà portando la spesa a domicilio a qualcuno, penso. Sono un privilegiato, penso. Esco, faccio la spesa. Posso farlo, penso.

La fila avanza di qualche metro. Ora mi trovo dove il ragazzo ha raccolto i sassi. Guardo la terra. C’è poca erba lì vicino, terriccio, ciottoli, pietruzze varie. E lì vicino un tronco. Nel resto dell’aiuola l’erba è cresciuta e non è stata potata. Il piccione vola via, lo sento. Mi volto. È dietro di me, vicino la signora che “mi ha lasciato andare avanti”. Sta ancora con il telefono e i suoi messaggi. La signora napoletana ha ormai abbandonato WhatsApp e parla bellamente al telefono. Ti prego finisci quanto prima, penso. Si sente solo la tua voce, penso. È più forte di me: la ascolto. “Sto nu poc’ demoralizzata”. Dice così. Penso che anche io mi sento così. Penso che mi piace l’uso napoletano del verbo stare al posto di essere. Penso che è azzeccatissimo. Oggi più che mai. Stiamo in fila e stiamo demoralizzati. Entrambi. Glielo vorrei dire. Non lo faccio.

La fila avanza di qualche metro. Tra poco sarò all’ombra. Guardo il sole un’altra volta. Vado avanti. Faccio fatica a mettere subito a fuoco. Guardo avanti. Vedo sulla destra la parete del supermercato e alcune vetrate. Chi mi precede guarda dentro assorto. Sul marciapiedi vedo bene due piccole costruzioni con le saracinesche abbassate. Un fioraio e un’edicola. Sopra vi è ripetuto “Più Case. La rivista di annunci immobiliari”. Mi sembra anche quello in qualche modo ironico.

Si ferma una Ford Focus station wagon verde, a bordo una coppia. Sono seduti troppo vicini: il passeggero dovrebbe stare dietro, penso. Uno sportello si apre. Il conducente scende. Guarda. Risale. Prima. Si allontana. Niente spesa oggi.

La fila avanza di qualche metro. Intravedo la scritta blu “ENTRATA” e sotto, sulla porta automatica, in una busta perforata, un foglio con su scritto “fuori servizio”. Avanziamo. Ora vedo anche io all’interno del supermercato. Capisco perché gli altri erano catturati. Ne vengo rapito anche io. Vedo quello per cui sto in attesa da non so quanto. Come funziona. Devo imparare anche io queste nuove procedure, penso. È cambiato qualcosa, eppure devo solo fare la spesa. La signora è ancora a telefono. Sento che è in cassa integrazione. Non capisco che lavoro fa. Parla sempre. Mi dà fastidio. Glielo vorrei gridare. Vorrei dirle che mi dispiace ma che vorrei che stesse zitta. Non mi permetto. È libera di farlo. Lo potrei fare anche io: chiamare qualcuno. Ma non ho voglia di parlare con nessuno, ora. Voglio questo silenzio.

La fila avanza di qualche metro. Siamo quasi davanti l’ingresso, disposti in una sorta di semicerchio. Scorgo il nome della via in cui sto. Via Sant’Ampellio, Arcivescovo di Milano. Non lo conosco. Ti hanno dato una via sfigata, e anche un po’ insignificante, penso. Vedo la guardia giurata che fa entrare a scaglioni. Tre o quattro per volta. Ferma una coppia. “Solo uno per nucleo familiare”, dice.

Esce poco dopo un commesso. Si toglie la mascherina, si accende una sigaretta, e inizia a parlare con la guardia. Non sono ad 1 metro di distanza. Non hanno più le mascherine. Si lamentano. Ma penso solo che siano troppo vicini. Il commesso getta la sigaretta, riposiziona la mascherina e rientra.

Avanziamo ancora. La signora è ancora a telefono. Sento che il figlio si sta appassionando alla musica. Alla pianola. Suona sempre. E quando mangiano si allena mettendo le dita sulla tavola. E lei lo rimprovera. La fila avanza di poco. Ora ho il sole sull’altro lato della faccia, a destra. Il ragazzo ripone il libro dalla copertina rigida, la ragazza del fazzoletto posa il telefono. Entrano. Ma la guardia giurata mi fa cenno di fermarmi, e rientra. Sono in trepidazione. In lontananza vedo un orologio comunale. Lo guardo: segna le 15:45.

Vedo arrivare pian piano una signora con due stampelle e un tutore al piede. La guardia giurata esce e la aiuta ad entrare. Sento alcuni dire che si aiuta spingendo il carrello. Sono invidioso. È già entrata, penso. Vedo persone uscire con carrellini stracolmi e altre solo con piccole buste. Qui dicono sacchetti, penso.

La guardia giurata esce. Mi fa cenno con la mano: sono autorizzato a entrare.

Ce l’ho fatta, penso.

Entro.

 

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