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QUANDO HO FINITO IL LICEO, C’ERA UNA PANDEMIA MONDIALE di Giulia Mastrodonato [concorso letterario]

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Concorso Letterario de “La Voce di Venezia”. Prima edizione: “Racconti in Quarantena”

Quando il virus esplose, io ero al carnevale. Una domenica come tante, passata tra musica e colori. Avevo deciso di staccare la spina dallo studio che, da quando avevo iniziato la quinta superiore, era stato piuttosto impegnativo. Circondata da gioia e risate, inizialmente non mi resi conto che qualcosa stava cambiando, che la musica dei carri di carnevale si stava spegnendo e una voce iniziava a fare capolino dagli altoparlanti: era il presentatore del carnevale, e stava annunciando che le scuole di tutta la regione Emilia Romagna avrebbero chiuso, che la festa era, da quel momento, finita e invitava tutti i partecipanti a tornare a casa.

La quarantena era ufficialmente iniziata, ma noi ancora non lo sapevamo.

I nostri professori, a distanza di pochi giorni gli uni dagli altri, si fecero subito sentire, dandoci compiti e letture, pronti ad iniziare le lezioni online se la situazione non si fosse risolta. Cercavano di rassicurarci, di essere con noi, ma sentivo dal tono delle loro mail che erano tanto incerti quanto i loro studenti. Loro, che erano sempre stati un punto di riferimento, ora per la prima volta non sapevano come guidarci.

L’ultima volta che vidi due miei compagni di classe fu proprio nei giorni dopo quella domenica: ci eravamo incontrati per fare un lavoro di gruppo che avremmo dovuto esporre alla docente di storia. Incarnavamo l’essenza degli studenti di quinta superiore: una pandemia era in atto, un mostro invisibile camminava per l’Italia, ma noi dovevamo assolutamente finire quella ricerca di storia. Non potevamo immaginare che quel lavoro non l’avremmo mai finito, né tanto meno che mai l’avremmo presentato in classe.

La didattica a distanza iniziò e presto prese il normale ritmo scolastico. Verifiche ed interrogazioni erano diverse, ma ci adattammo anche a quello. Studiare, invece, era differente. La mole di studio era maggiore rispetto alla normalità, la concentrazione spesso mancava. Comportarmi normalmente, imparare ed esporre concetti come se quella attorno a me fosse la normalità mi veniva estremamente difficile. Fuori dalle mie mura di casa la gente si ammalava, moriva, e il motivo per cui io non potevo andare a scuola era perché non era sicuro.

Là fuori, migliaia di persone dalle diverse divise lottavano perché io potessi, un giorno, tornare alla mia vera quotidianità. La mia media scolastica calò e così la mia attenzione durante le lezioni. Lo sguardo si appesantiva sui libri e volava invece al fruscio dei rami mossi dal vento primaverile, l’orecchio prestava ascolto al cinguettio degli uccellini con così tanta attenzione che iniziai a riconoscerne le tonalità, e a rallegrarmi quando sentivo il mio preferito. Nello studio ero altalenante e, proprio come il canto di un passerotto, acceleravo verso l’alto, per poi annegare nella caduta, le mie ali chiuse sui miei fianchi.

Di pomeriggio spesso studiavo in balcone, vestita con gli stessi pantaloni della tuta e la stessa felpa di due settimane prima: il cappuccio rigorosamente alzato sotto il sole cocente, mi sdraiavo sulle piastrelle bollenti come una lucertola per accumulare calore visto il freddo di casa mia.

Freddo che probabilmente ero la sola a sentire, visto che nessuno della mia famiglia sembrava notare quanto me che la nostra abitazione pareva una di quelle grotte in Antartide dove nei film si trovano mammut intrappolati nel ghiaccio. Capitava spesso che mi addormentassi stesa a pancia in giù sotto il sole del primo pomeriggio e mi svegliassi poi per le esclamazioni di mia madre che, uscita in balcone e trovatami in quel modo, pensava terrorizzata che avessi avuto un malore e fossi svenuta. Questa mia abitudine si manifestò per tutto il periodo della quarantena, finché la scuola non arrivò alle sue battute finali e, come tutti, iniziai a studiare duramente per andare a caccia di medie alte. Le fatiche scolastiche si sommarono alle fatiche del periodo ma, alla fine di tutto, la scuola terminò prima che me ne potessi rendere conto, e con sé il lockdown.

Il mio ultimo giorno di scuola della quinta liceo fu diverso dagli altri anni. Mi aspettavo di piangere, di sentire migliaia di emozioni, qualunque cosa mi permettesse poi di ricordare in futuro la peculiarità di quel giorno, ma nulla. Iniziò e finì come tutti gli altri giorni erano iniziati e finiti: seduta su una sedia nella mia sala, mentre i miei professori parlavano attraverso uno schermo.

La mia ultima ora di liceo fu l’analisi di una poesia di Eugenio Montale, “Ti Libero la Fronte dai Ghiaccioli”, condotta magistralmente dalla mia professoressa di letteratura italiana. Analisi che, forse per la stanchezza o per la mancata passione verso le opere del poeta, non ascoltai; il karma colpì veramente duro, riproponendomi quella poesia al mio colloquio orale durante il momento dedicato ad italiano. Presentata con un orgoglioso dieci in pagella nella suddetta materia, feci la meravigliosa figura di improvvisare su un brano di cui a malapena avevo letto l’analisi su internet il giorno prima. In un miscuglio tra ironia e amarezza, quel mio esame orale, come la pagella finale, rappresentò perfettamente il mio percorso scolastico: altalenante, faticoso, ricco di soddisfazioni e di rimorsi.

Per quanto riguarda la quarantena, ho capito cosa significa perdere di colpo ciò che più di tutto davo per scontato, la mia scuola, e mai lo dimenticherò. Mai dimenticherò quel periodo, in cui incertezza e fatica dominavano regine sulle nostre emozioni.

Tuttavia, se c’è un’emozione che queste tiranne non hanno potuto sopprimere, e forse colei che alla fine di tutto ha trionfato, aiutandomi ad andare avanti, è stata la speranza di una condizione migliore, che l’uomo è sempre stato in grado di raggiungere rialzandosi dopo ogni difficoltà, credendo di potersi sempre migliorare. Se paragonare questo atteggiamento allo slancio trionfante di un’aquila reale o all’ingenuo volo di Icaro verso il sole splendente, questo ancora non so deciderlo.

Quello che conta alla fine di tutto è la fiducia che decidiamo di dare agli altri. Che fosse nelle istituzioni, nelle aziende o più semplicemente nelle singole persone che tutti i giorni incrociano le nostre vite, di fiducia alla fine ne abbiamo avuta. Finita l’emergenza sanitaria dovremmo ricordarci di questa Fiducia, che tanto faticosamente abbiamo donato, per andare avanti e costruire qualcosa di nuovo, ancora una volta, insieme.

 

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