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MI MANCA IL MONDO di Tindara Maria Rubera

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La terra trema, spaventata da un nemico invisibile portatore di morte. Posso scorgere da lontano, nella nebbia spettrale, il fantasma di una De Medici francese; si muove furtiva in cerca del suo caro Nostradamus, ma non lo trova. Eppure l’ha trovato sempre quando ne ha avuto bisogno; fu lui che le spiegò quali tragitti evitare e quali percorsi scegliere per salvare la sua dinastia dalla morte nera, che assediava ogni regno.
Ha bisogno di risposte, e anch’io.
Decido di seguirla; le do la mano, ma lei non se ne accorge. La chiamo a gran voce: “Caterina!”, ma non si volta; non mi guarda nemmeno.
Caterina si rifugia nel passato delle pestilenze, non capisce nulla di quest’attesa asfissiante e non può vedermi. La Francia non è mai stata sua eppure l’ha dominata nella sua piccola statura borghese e fiorentina; un pezzo superbo d’Italia s’è mosso severo tra Digne e Roussilon, rassicurato dallo sguardo profetico di un amico non comune.

Io la tocco, le stringo la mano e le chiedo conforto. Nostradamus non appare, chiuso nel caldo di un cantuccio spento. Continuo a cercarlo con Caterina sotto braccio. La vedo confusa, spaventata, ingigantita dai suoi lutti. Tutto è silenzio. Neanche un’ombra s’aggira tra i vicoli illuminati di questa città deserta. C’è qualcuno, tuttavia, in balcone, che intona una canzone; ne sento l’amarezza, ma anche la speranza. I bambini non urlano, non giocano, forse si sono arresi e sognano la fine della quarantena; l’attendono con trepidazione. E babbo natale? Arriverà anche quest’anno? Potrà toccare, almeno lui, le fronti accaldate dei bambini d’inverno? Avrà preso il virus, tutto solo, nel nord del mondo? Quante domande e preoccupazioni affollano la mente dei pargoli di questo tempo, eppure Caterina cammina, ne ignora l’esistenza, aggravata da un sapere micidiale, quello del passato che sa sempre intravedere squarci di futuro.
La pestilenza ha decimato il mondo; nessun vinto, nessun vincitore. Non ha lasciato altro che morte lungo il suo passaggio; Caterina lo sa bene; l’ha visto e l’ha sentito forte, quel rumore straziante della falce intorpidita dal lavoro forzato, obbligato dalla malattia, ma non può raccontarlo. È stato dimenticato. Per troppo tempo non si è parlato di contagio, ed ora ritorna, sotto le spoglie di un medico imbiancato, ricoperto da capo a piedi di tute anti-covid, maschere, mascherine, guanti, igienizzanti, precauzioni tecnologiche, e tutti si vestono. Indossano quelle mascherine chirurgiche salvavita che coprono il volto e la smorfia di un pianto.

Mi manca il mondo di ieri e Caterina non lo sa. Non può saperlo, perché il suo ieri è stato devastante, mentre il mio è stato lucente, ricco, smanioso di vita.
Per lei quest’oggi è paradiso, per me l’inferno.
Esco ed ho paura. Piango e tremo.
Non posso stringere mia madre, non posso baciare mia figlia, non posso amare. No, non so amare senza il corpo. Non voglio amare senza il corpo, e non oso farlo. Ho bisogno di sentire; di sentire forte l’altro essere umano.
Un metro di distanza non è il metro giusto per amare. Un metro di distanza è il metro giusto per sopravvivere, per non rischiare, per mettersi al sicuro, per prendersi cura dell’altro.
Ora Caterina si è voltata come se avesse sentito il mio pensiero. Mi sorride e scompare. Ha trovato Nostradamus e l’ha condotto da me. Arriva cauto, guardando la suola delle scarpe bucate; continua a vedere un mondo avanzato, pieno di nuove scoperte che poi si ferma, tutto in una volta. S’arresta. Le macchine non possono proseguire i loro tragitti verso mete distanti; l’oceano che ci separa dalle Americhe sembra arrabbiato e vieta il passaggio; gli aeroplani hanno ammesso di non essere degli uccelli e si rifiutano di volare; noi uomini non abbiamo abbastanza gambe per viaggiare. Così tutto si ferma, solo il virus prosegue il suo percorso, mutando, cambiando, correndo, come una parola detta male che passa di bocca in bocca, di like in like.

Nostradamus interviene adirato: “lo sapevo che sarebbe accaduto, ma non avrei potuto fermarlo. Lo sapevo, ma sono morto troppo presto”.
“Finirà?” Chiedo con il cuore in gola.
“Finirà. Deve finire”. Nostradamus sembrava convinto.
“Quando?”
“Non posso prevederlo. Non voglio prevederlo; c’è troppa medicina nell’aria che ostruisce i miei poteri”.
“Allora, la medicina vincerà?”
“La medicina vince sempre. Abbi fede”
“Ma in cosa? In Dio?”
“Ma non è forse nelle medicine che si nasconde il grande potere di Dio? Guarda cosa ha creato! La perfezione umana che va al di là di ogni pandemia e arresta le malattie e la sofferenza.”




Non ho mai sopportato l’odore delle medicine, ma adesso sono in fila nell’attesa di un vaccino, pronta ad assaporare la libertà di giorni spensierati in cui l’incontro è portatore di gioia e non di spavento, in cui la mano è indice di educazione e non di disappunto, in cui l’altro è il benvenuto e non il malaccetto.
Passeranno, allora, questi giorni grigi di solitudine; le strade torneranno affollate e nessuno avrà più paura dell’altro; ci stringeremo in un unico respiro, prima di tornare ad odiarci e a farci battaglia; e in una di quelle serate a venire di festa, potrò nuovamente vedere Caterina, scomoda nel suo abito troppo lungo; scomoda nel suo nome troppo austero; scomoda nella sua vita da regnante all’insegna del lutto. La vedrò ricoperta di foglie d’autunno e, finalmente, potrò dirle le parole che non avrei mai potuto pensare di dire: “si, Caterina, ti capisco…adesso, ti capisco”.

 

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