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Martin Eden, un film che si vorrebbe circolare ma è più lineare di quel che si pensa

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Martin Eden, un film che si vorrebbe circolare ma è più lineare di quel che si pensa

Di tutti i commenti a caldo su Martin Eden, di tutto il ragionare e discutere, di tutti i sentimenti provati durante la proiezione del film, come marinai in tempesta ammettiamo la non facilità di esprimere un giudizio a bruciapelo su questo secondo lungometraggio di finzione del regista casertano Pietro Marcello.

Vuoi per la materia magmatica ed eterogenea messa in scena dal regista (tra cui filmati d’archivio a puntellare le fasi del racconto), vuoi per la scelta spiazzante dell’ ”atemporalità” e della differente collocazione geografica del romanzo di London, chi si aspettava una narrazione lineare potrà restare almeno preso in contropiede dalla visione.

Alla fine, per capire come mai un film almeno sulla carta non convenzionale possa aver colpito positivamente anche fasce di pubblico meno abituate alla sperimentalità, si crede di trovare la risposta in un fattore determinante del film: Luca Marinelli.

La scelta di questa nuova stella del cinema italiano, dopo la scoperta di molti in “Non essere cattivo” e la conferma in “Lo chiamavano Jeeg Robot” (film in cui si è costruito un personaggio cult a tavolino basandosi sulle indiscutibili capacità dell’attore) sembra mettere grosso modo d’accordo tutti.

Occhi febbrili, appeal naturale, accattivante, furbo e allo stesso tempo trasparente, Marinelli (vincitore della Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia 2019) seduce lo spettatore in virtù di una facilità recitativa che però talvolta sfocia nel manierismo. Ma è indiscutibile che Marinelli sappia darsi come un bicchiere d’acqua fresca al pubblico. Un po’ grazie a una prestazione di livello, un altro po’ grazie a dei trucchi d’artista che riportano a certi istrioni della classica commedia all’italiana, senza sostanziali novità.
Probabilmente con un altro artista, con differente fisicità e differente birignao, il film avrebbe catturato qualche consenso in meno.

Marcello, con lo sceneggiatore Braucci, ha visto nel classico di London (ritratto di formazione di un artista, da parvenu desideroso di crescere in arte e status a scrittore di successo vissuto come condanna) la possibilità di raccontare un paese e una città specifica girovagando grosso modo nel 900, con punte che vanno dal periodo di formazione del fascismo sino all’oggi.

Non si discute la scelta, di per sé interessante anche se eccessivamente straniante dato che comunque “Martin Eden” è uno di quei classici che gran parte dei lettori han ben piantato in testa e che si situa in un Paese ben preciso e con caratteri ben definiti.

Il problema è, a nostro parere, che tutto questo metalinguaggio (archivi, epoche, abbigliamenti, scelte di casting e di profilmico) non sfugga a delle consistenti ingenuità.

Nonostante la sua esuberanza, talvolta “Martin Eden” appare un film provinciale; il ritratto di Napoli è incompiuto se non affidato a banali scelte che pescano in un Ovvio ripassato in salsa Mario Martone. Abbiamo qualche vicolo lordo, qualche scalinatella longa longa strittulilla e qualche prostituta/prostituto a segnificare il male e la durezza del vivere. Immagini seppia di lazzarelli sdentati, come condimento d’ambiente e di censo.
Abbiamo una “lei”, di cui il giovane e puro Martin si innamora; Elena (interpretazione scipita di Jessica Cressy). Maiueuta in amore e in cultura. Ma è francese, in una famiglia completamente italiana; perché?

Forse perché a inizio novecento si vede la Francia come terra di cultura? Se è un simbolo, a parer di chi scrive sembra decisamente puerile.
Abbiamo Napoli, di cui si è detto: abbiamo le varie epoche, dove il dopoguerra è illustrato da qualche masso di edificio sventrato da bombardamenti; abbiamo giacche di renna e taglio di capelli per gli anni 80.
Abbiamo qualche insegna e qualche fazzoletto al collo per i movimenti politici.
Un repertorio di stereotipi che fa a pugni con la pretesa sperimentalità del progetto.
Abbiamo canzoni relazionate ai periodi, e questa scelta postmoderna non fa più sussultare gli spettatori anche mediamente avvezzi.

Se, poi, il film vuole essere il riscatto della cultura contro l’oppressione “fascista” allora la messinscena spesso fa a cazzotti all’interno di essa. Perché da un lato abbiamo un afflato nobile di timbro e di morale, una voglia di essere irriconducibili a tecniche narrative rodate; da un altro l’iterazione di luoghi comuni, quasi folklore. Nel secondo tempo Marinelli spesso strafà e straparla e stecca, impoverendo il personaggio di un Martin Eden svuotato e disilluso, piegato a una recitazione di scuola italiana anche se nel fondo resta sempre un sentore di onestà dell’attore.

Ancor di più e peggio nella recitazione del suo mentore, il Russ Brissenden interpretato dal sempre incarognito Carlo Cecchi, che, per l’ennesima, ingrugna la bocca e smozzica parole di disillusione affogando lo spleen in alcoolici dentro tabarin art deco degni di qualche fiction rai premium.

E se la Cressy è quasi nulla, persa in un costante velo di francesità otto/novecentesca, che dire della figura dell’editore di Eden, interpretato da Maurizio Donadoni, la cui parlata da bauscia milanese ricorda più gli stereotipi vanziniani che un cinema d’autore?

E la chiusa, disperata, in cui un cameo (autoironico?) di Giordano Bruno Guerri in veste di propagandista del Fascismo fa da trait d’union con l’estrema propaggine storica possibile (il terzo millennio, gli immigrati,) indebolisce un film che si vorrebbe circolare/immobile ma che, nei pur nobili intenti, è più lineare di quel che sembra.

Forse non è più tempo di una narrazione progressiva; forse però non è già più il tempo di una narrazione postmoderna. Probabile che “Martin Eden” appartenga a un modo di fare cinema che è già in crisi.

Onore al merito all’autore che, comunque, ha rischiato rileggendo una materia ormai interna ai classici per un discorso elaborato e attuale. Ma alla fine ciò che sembra vincere è la rotta più ovvia.

MARTIN EDEN
(id. 2019)
Regia: Pietro Marcello
Con: Luca Marinelli, Jessica Cressy, Carlo Cecchi, Maurizio Donadoni
Luca Marinelli: coppa Volpi miglior interpretazione maschile alla 76ma mostra del cinema di Venezia

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