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L’ARCOBALENO di Mario Rifranti [concorso letterario]

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Ormai sappiamo che i bambini quando nascono ci vedono: non molto lontano, quei pochi centimetri che li separano dall’ovale del viso della mamma o da quei morbidi tondeggianti distributori di buonissimo latte.

E’ così che imparano a preferire le rotondità. Poi crescono, e il loro raggio visivo si allunga rapidamente, come un metro a nastro senza fine.

Così, quando Omar dopo sei mesi cominciò a mettere a fuoco la parete di fronte alla culla, vide un bellissimo arcobaleno, dipinto direttamente sul muro. C’erano anche un paio di parole scritte: “Peace and Love”, ma lui che non padroneggiava ancora l’inglese, nemmeno ci fece caso, attratto come tutti i bambini dai colori e quelli erano sette bellissimi semicerchi colorati; peccato fossero tondeggianti verso l’alto e non verso il basso, come i distributori della mamma, ma forse pensava che l’avessero dipinto capovolto.

L’arcobaleno lo aveva affrescato Delia, la nonna hippy della famiglia che ai bei tempi aveva conosciuto nonno Sandro, con cui avevano ideato Linda, la mamma.
Nonna Delia e Omar, come capita spesso, erano una cosa sola.
Nonno Sandro invece, una sera era sceso per acquistare fumo ma si era perso nella nebbia.

Omar era un nome strano per un bambino della campagna torinese, però mamma e papà amavano il cinema alla follia, soprattutto i film e gli sceneggiati che ne avevano fatto la storia, e mamma quando guardavano un film, poi restava sveglia a sognarci. Così quando Il dottor Zivago, alias Omar Sharif, comparve sugli schermi, quella notte entrambi non chiusero occhio, e nove mesi dopo nacque Omar.

Papà Leo, che aveva ormai perso la speranza, era così felice della nascita che cedette sul nome. “D’altra parte,” pensò “se fosse stata una femmina si sarebbe chiamata Lara.”
Quando nonna Delia giocava con Omar in cameretta, gli raccontava tante storie sull’arcobaleno.

“Quello vero deve avere sette colori,” gli spiegava.
Un giorno ne apparve uno in mezzo alla campagna, e Omar che aveva sempre visto solo il suo, per la meraviglia non ci dormì la notte.
A undici anni finalmente nonna Delia che amava il mare, lo portò a divertirsi sulle spiaggione della Romagna e si sa quanto è facile fare amicizia tra le onde, sotto il sole, o infarinati di sabbia dando calci ad un pallone.

Le cose divertenti da fare in compagnia sono infinite, ma ci sono anche quelle da fare in pochi, con gli amici più furbi o più grandi.
“Se mi prometti di far piano in assoluto silenzio, ti mostro una cosa.”, aveva detto Davide, l’amico più sveglio “Appena senti chiudere la porta della cabina, appoggia l’occhio qui.”

“Ci sono tante donne e ragazze in spiaggia, ma tutte coperte nei punti che mi piacerebbe vedere di più.” aveva sempre pensato Omar.

Appoggiò timidamente l’occhio al forellino e alla luce che filtrava dall’alto vide quello che aveva desiderato: una ragazza già grande e abbondantemente sviluppata si stava cambiando il costume nel segreto della cabina, rimirandosi vanitosamente nello specchio. Nella penombra gli apparvero rotondità fino ad allora solo immaginate, impensabili ma fuggevoli, visto che dopo pochi secondi dovette lasciare il posto a Davide.

Fu la seconda volta che non ci dormì la notte.

Si accorse che da quel giorno quando incrociava una ragazza, osservava soprattutto le rotondità apparsegli quella volta per pochi secondi, e il suo sguardo non si alzava oltre la scollatura.
Gli occhi più belli della famiglia erano quelli di nonna Delia.

Nei suoi, sempre sorridenti, sembrava ci fossero tutti i cieli che aveva visto viaggiando, ed erano quelli che Omar osservava spesso.

“Quali sono gli occhi più belli?” le chiese un giorno.
“Quelli più espressivi, che parlano senza dire. Gli occhi belli sono una fortuna, non invecchiano, non ingrigiscono come i capelli, non scendono come molte parti del corpo.” fu la simpatica risposta
“E’ come la fortuna, può capitare, ma non a tutti.”
“Si, ma come colore? Tu sei fortunata, nonna i tuoi sono azzurri.”
“Ma ce ne sono tanti altrettanto belli, neri come la notte, verdi come le foglie… oppure arcobaleno.”

“Arcobaleno?”
“Si, son quelli che cambiano con la luce ad ogni ora del giorno, grigi, verdi, azzurri… come un caleidoscopio!”
“Che meraviglia!”
“Ma sono rari come certe pietre preziose…”

Il condominio in cui abitava Omar era formato da quattro palazzi, uno di fronte all’altro. Al centro un cortile, qualche aiuola, e un paio di panchine ben frequentate, piccolo contributo alla socializzazione.

Una mattina fu svegliato da un ronzio, aprì la finestra e vide una piattaforma passargli sotto il naso per andare a fermarsi un piano più su. Qualcuno arrivava traslocando, sicuramente la famiglia che giù in cortile, con il naso all’insù controllava il lavoro: padre, madre, e una ragazzina, tutti di pelle ambrata, sicuramente stranieri.

Omar giudicò dall’alto che lei potesse avere più o meno la sua età, magari un anno in più, viste le sue forme già accentuate.

“Le ragazze diventano grandi prima,” pensò “meglio!”

Poi all’improvviso, la vita di tutti i giorni che andava diritta incontro al futuro, imboccò una strada viscida e cominciò a sbandare.
Frenare divenne impossibile.
Nei telegiornali cominciarono a comparire immagini strane, spezzoni simili a film di fantascienza, come se il regista avesse perso il controllo della console.

La causa di tutto era quella pallina multicolore, piena di antennine, che riempiva gli schermi TV rubando progressivamente la scena a calciatori milionari.
Le cronache sportive lasciarono il posto a quelle di combattimenti impari, tra coraggiosi ninja vestiti di bianco e un nemico invisibile che li decimava, intrufolandosi tra le maglie delle loro troppo deboli corazze.

Il nome del nemico, Corona Virus, dava proprio l’idea di un re malvagio.
Omar, dopo aver ascoltato opinioni di tutti i tipi e notizie catastrofiche, tranne una, la chiusura della scuola, chiese:
“Nonna, ma che sta succedendo?” e lei un’idea ce l’aveva.
“Gaia”, così la nonna chiamava il pianeta, “si è stancata di questo esserino che la sta spremendo come un brufolo ormai da troppo tempo, il brufolo ha fatto infezione e sta provocando quello che vediamo in televisione.”

“Ma nonna è terribile, si vedono persone isolate dal mondo che forse moriranno, con delle campane di plastica in testa, senza nessuno accanto…”
“Ci sono i dottori…”
“Ma sono tutti incappucciati anche loro, come possono aiutarli, parlargli, fargli coraggio?”
“Aiutarli lo fanno stai sicuro, rischiando la vita anche loro… il resto lo fanno con gli occhi… ti ricordi?”
“Si, mi ricordo… i più belli sono quelli che parlano senza dire…”
“Ecco, proprio così coccolo.” E nonna Delia cambiò discorso per non mostrare gli occhi lucidi.

Tutti, nonostante fosse carnevale, corsero a cercare mascherine ben diverse dalle solite, che non facevano per niente ridere, anzi, e perfino i più pigri si decisero ad abbandonare l’ascensore e usare le scale.

Omar, dal giorno del trasloco non aveva più avuto occasione di incontrare la ragazzina del quarto piano, solo qualche breve occhiata dal balcone quando la vedeva attraversare il cortile.

Una mattina, mentre apriva la porta di casa sentì dei passi scendere le scale e se la ritrovò davanti.
Lei si era fermata, non sapendo se lasciarlo passare o precederlo.
Omar, da una distanza cosi breve non ebbe il tempo di guardarla da sotto in su, come sua abitudine, e la guardò in viso, o per meglio dire, negli occhi, visto che con la mascherina erano l’unica parte visibile.
Era una giornata nuvolosa. Dal finestrone del pianerottolo entrava una luce grigio chiaro, lo stesso colore dei suoi occhi, ombreggiati da ciglia lunghe e nere come i capelli.

Lei non disse nulla, ma dai suoi occhi che si erano stretti, forse gli aveva sorriso.
Omar, impacciato le fece cenno con la mano di passare e bofonchiò un “Buongiorno” dentro la mascherina, di cui si pentì subito.

“Va bene mantenere le distanze,” si rimproverò ”ma non in questo modo.” Poi, ricevuto un “Grazie”, la guardò trotterellare giù dalle scale pensando ai suoi occhi.
La nonna aveva capito che ormai lui si offriva troppo volentieri di portare i sacchetti in pattumiera, e cercava di agevolarlo senza urtare la sua suscettibilità.
Due giorni dopo, in una splendida giornata di sole, Omar la incrociò in cortile.

Questa volta anche lui strizzò gli occhi e dalle mascherine filtrarono due “Ciao!”. Da un metro di distanza gli occhi di lei erano azzurri come la mascherina.
Dopo una settimana ormai conosceva le sue abitudini e aspettava il suo passo leggero sulle scale, prima di uscire.
“Devo farmi coraggio,” si disse “a costo di essere ridicolo.”
Afferrò la maniglia al momento opportuno e le si presentò davanti con il sacchetto dell’umido in mano, come complice.
Lei gli si fermò a un metro esatto, come la prima volta, indecisa.

Omar si chiuse la porta alle spalle.
“Come ti chiami?” e non seppe dirle altro.
“Amina e tu?”
“Omar, ma sono italiano.” volle precisare.
“Anch’io.” rispose lei. “Bisogna stare a un metro.” aggiunse allungandogli un gomito.

Dalle mascherine uscirono due risate sommesse.
Dal finestrone aperto arrivava la luce morbida del pomeriggio. I suoi occhi questa volta avevano riflessi verdi.
La sera la nonna a tavola commentò con voluta indifferenza:
“Ho visto quella ragazza del quarto piano, carina…” e sbirciò Omar di sfuggita.

“Ha dei begli occhi.” aggiunse la mamma. “Sono egiziani, mi hanno detto, ma vivono qui ormai da molti anni.”
La nonna, ricordandosi della sua gioventù, pensò che le sarebbe piaciuto vedere il suo coccolo vivere il primo innamoramento.
“Si, molto belli, peccato i capelli così neri…. che dici coccolo?” tentò, sapendo che odiava il nero.

“A me sembra le stiano bene.” sfuggì a Omar già in sua difesa.
“Hai proprio ragione! Ora vado dalla signora Baima, devo consegnarle un lavoro.” E se ne andò sorridendo soddisfatta.

“Che cos’è?” le gridò coccolo incuriosito.
“Segreto! Domani vedrai! Bacio!”
Quella notte Omar dormì pochissimo, ma non per paura.
“Amina,” pensava “che nome misterioso!”
Il mattino dopo ascoltò uno, due, tre richiami della mamma, poi decise di alzarsi e spalancare la finestra.
Nel palazzo di fronte c’era un grande lenzuolo bianco steso tra due balconi.

“Deve essere opera della nonna!” pensò subito guardando l’enorme arcobaleno con i sette colori che sfumavano splendidamente l’un dentro l’altro. E sotto una scritta questa volta in italiano:

ANDRA’ TUTTO BENE!

Omar, appoggiato con i gomiti alla finestra vide Amina rientrare in cortile, di ritorno dal fornaio.
“Che meraviglia… l’arcobaleno!” Pensò con lo sguardo abbassato.
Poi sentì la mamma che gli gridava:
“Mi lavo i capelli e arrivo!” e di colpo gli venne un’idea.
Afferrò un foglio bianco, un pennarello rosso, del nastro adesivo, e ci scrisse:

CIAO AMINA!

BUONA GIORNATA!

ANDRA’ TUTTO BENE!

Corse alla porta, l’aprì, lo appiccicò fuori, la richiuse e aspettò, incollato allo spioncino.
Amina saliva canticchiando e sbuffando leggermente.
Le mancava solo un piano, non scendeva nessuno e si era abbassata la mascherina.

Omar la spiava col cuore accelerato e il timore di essere scoperto.
La vide attaccare la rampa che portava davanti alla sua porta e fermarsi incuriosita davanti al foglio. Seppur deformato dallo spioncino, scoprì il più bel sorriso che potesse immaginare.

Poi Amina si portò l’indice alle labbra in un gesto veloce, prima di andarsene.
Avrà voluto dirmi “Silenzio, è un segreto… o era un bacio?” si chiese Omar… “Cominciamo bene!”

 

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