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COME UN FIORE TRA L’ASFALTO di Monica Gorret [concorso letterario]

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Concorso Letterario de “La Voce di Venezia”. Prima edizione: “Racconti in Quarantena”

Strano, confuso compleanno, quello di quest’anno: seduta sul divano ad aspettare la telefonata del Servizio di Salute e Sicurezza; in ansia, anche se rassicurata in parte dall’eco delle parole del medico dell’ospedale.

In effetti devo tornare ancora più indietro, di qualche giorno solo in realtà, per far cominciare tutto: era sabato e da diverse ore non stavo bene, avevo cominciato a sentire strani dolori, acuti ed intensi al torace, mi toglievano il fiato addirittura. Dovendo descriverli mi viene in mente l’immagine di un sasso che cade nell’acqua e forma tanti cerchi concentrici che si allontanano da esso allargandosi. Ecco, il mio dolore era così, partiva da un centro in maniera acuta, per allargarsi tutt’attorno, espandendosi e portando con sé un calore intenso. Durava poco, un minuto o due al massimo, poi spariva, per tornare dopo un’ora o dieci minuti, e ancora, e ancora…

Ero molto preoccupata, perché temevo fosse un problema al cuore, e mio figlio lo era ancora più di me, ma soprattutto temevo di dover andare in ospedale in un momento così difficile, in un giorno da COVID-19, quando farsi ricoverare era un rischio più che non farlo.

Avevo comunque scritto alla mia dottoressa e lei mi aveva contattata immediatamente per decidere il da farsi.

Quel “da farsi” era un viaggio in ambulanza tra operatori sanitari vestiti come astronauti, con ingombranti tute bianche che li coprivano interamente, mascherine ed occhiali protettivi. Poi il trasferimento in una tenda allestita appositamente per il triage del COVID-19.

La sera, quando fui riportata a casa, dopo visite, elettrocardiogramma, lastre ai polmoni, prelievi di sangue e tampone, il dottore mi disse che secondo la sua esperienza potevo stare tranquilla e che quasi certamente ero negativa. Ma la mia dottoressa, molto scettica, mi suggerì di aspettare i risultati, perché lei la vedeva molto diversamente!

E aveva, ahimè, ragione: due giorni dopo mi telefonarono per confermarmi la positività del tampone… proprio il giorno del mio compleanno!

Cominciò così tutto l’iter di emergenza sanitaria, fatto di telefonate, contatti con il Municipio, controlli, ordinanze, quarantena, cura sperimentale, timori, modifica del vivere quotidiano, il doversi appoggiare all’altro mio figlio per spesa, farmaci, per buttare le immondizie, e il tutto potendosi solo sentire al telefono o da dietro la porta chiusa di casa.

Ho 54 anni e due figli grandi che ormai seguono la loro strada e i loro sogni, ho una vita complicata e difficile alle spalle, vita che troppo spesso fa ancora capolino con i suoi vari colpi di coda e mille sogni chiusi in un cassetto o infranti qui e là. Eppure, col tempo e con tanta fatica, mi sono creata un mio angolo, un mio mondo sicuro fatto di alte mura che mi porto addosso ovunque vado, come scudi magici. E’ un po’ come vivere all’interno di un castello col ponte levatoio tirato su, osservare il mondo da uno spioncino e decidere di volta in volta quando mettere fuori il naso. Tutto questo, ovviamente, lavorando e facendo tutte le cose normali che si fanno vivendo.

Ed eccoci alla quarantena, che vissuta da una persona come me, abituata alla solitudine, all’indipendenza e al silenzio già nella sua quotidianità, non ha pesato

poi così tanto, se non per il non poter lavorare e per la paura dei dolori e di un possibile peggioramento del decorso della malattia.

In casa godevo della compagnia di mio figlio (il più giovane), rientrato forzatamente dall’Università di Bologna, proprio per le chiusure regionali ed obbligato a condividere con me la quarantena.

Oltre a lui c’erano i sempre presenti libri, i film in tv…e i messaggi di colleghi e amici, che nemmeno immaginavo mi avrebbero scritto così spesso e così in tanti.

Tra tutti quei WhatsApp, il giorno dopo il mio compleanno, me n’è arrivato uno che proprio non mi aspettavo. Ovviamente era un messaggio di circostanza, un gesto carino per rassicurarsi sulla mia salute, come “lui” faceva per tutti gli altri colleghi che si trovavano nella mia stessa situazione. E come tale l’ho considerato e ho risposto, cortesemente, con lo stesso spirito.

Infondo conoscersi da 23 anni, vedersi quasi quotidianamente anche se solo per lavoro, ti fa sentire alcune persone più vicine, quasi familiari.

Poi, 3 giorni dopo il suo primo messaggio…ecco il secondo, sempre carino, sempre di circostanza, ma un po’ più lungo, più articolato. Poi una telefonata, che a me ha fatto piacere, ma mi sono sentita in imbarazzo, forse più del normale.

Io però mi sento spesso in imbarazzo, fuori luogo, spesso non all’altezza, e vorrei diventare invisibile, mimetizzarmi come un camaleonte, confondendomi con l’ambiente circostante senza essere vista. E con “lui” non ero da meno, anzi, forse lo ero di più ancora.

Dopo quel giorno ci fu una settimana di silenzio da parte di entrambi, ma credevo fosse normale e pensavo che non ci saremmo più sentiti, quand’ecco, nuovamente,

un suo WhatsApp…poi un altro, tre giorni dopo. Questa volta, però, non erano più messaggi, ma conversazioni: parlavamo, ci raccontavamo di noi, ci conoscevamo insomma e qualcosa stava pian piano cambiando, perché da quella sera non abbiamo più smesso di scriverci e sentirci.

La cosa strana è che fin da subito abbiamo cominciato a parlare di tutto. Non solo, ma passavamo da argomenti seri, certe volte tristi o toccanti, ad altre cose assolutamente esilaranti, folli addirittura, ma sempre dandoci corda l’un l’altra.

E’ strano come non si conoscano mai le persone a meno di non prestare loro attenzione, ascoltando le loro storie, anche quelle più intime e personali, dedicandogli tempo. Ed è così che l’uomo che apprezzavo ed ammiravo “lavorativamente”, pian piano era diventato un uomo vero, completo, in carne ed ossa, fatto di sentimenti, di storie, di modi di essere, di parole, di sensazioni.

Anzi, proprio quel lockdown che faceva paura, quella quarantena forzata, ci davano il tempo di parlare di noi, tra noi… e il fatto di farlo da lontano, forse, ci ha permesso di essere noi stessi, di aprirci con più facilità, senza quei timori o blocchi che automaticamente arrivano guardandosi negli occhi, specie all’inizio.

Aspettavo con ansia le 21, ogni sera, per leggere il suo “Buonasera!” e spesso le ore passavano senza che nemmeno ce ne accorgessimo, finché una mattina, mi sono accorta che lui era diventato il mio primo pensiero, appena sveglia, e gli ho mandato il buongiorno.

La nostra quotidianità si stava pian piano evolvendo, senza che nessuno dei due lo volesse, senza aver cercato nulla, così…semplicemente.

I mesi passavano e con essi pian piano era arrivato il desiderio di vedersi di persona, anche se io temevo questo momento e, in qualche modo, mi sentivo al sicuro non potendolo fare per via del persistere del lockdown.

Ovviamente non era come per i siti di incontro; noi ci conoscevamo, sapevamo già come siamo fisicamente, ma il fatto era che ci saremmo guardati con occhi diversi, vedendoci non superficialmente, ma “completi” di tutti i racconti e i segreti che ci eravamo scambiati messaggio dopo messaggio, ora dopo ora, giorno dopo giorno, per mesi.

Così, quando arrivarono le prime riaperture, con la possibilità di passeggiare, abbiamo spostato le nostre chiacchierate dal telefono, la sera sul divano, a sane conversazioni di persona, guardandoci e camminando nella natura.

Ammetto che all’inizio non è stato facile, soprattutto perché lo vedevo sotto una luce nuova, diversa e non capivo il mio ruolo, ne dove saremmo andati o se ci saremmo nuovamente persi.

Senza contare le paure che da anni mi avevano rinchiusa tra le mie altissime mura, allontanandomi da tutti, ma soprattutto da chiunque cercasse di conoscermi un pochino di più. E quelle stesse paure, con lui, uscivano nuovamente, per aggredirmi e farmi scappare lontana, prima ancora che qualcosa cominciasse.

Oggi, però, è l’8 agosto, sono passati 4 mesi da quel suo primo messaggio su WhatsApp, e noi due siamo appena scesi dal treno e siamo qui, a Venezia, per la nostra prima vacanza insieme, in una Venezia diversa, con meno turisti e meno vociare, ma forse proprio per questo ancora più magica, di una bellezza e un fascino sconvolgenti ed avvolgenti.

Non so cosa ci dovremo aspettare dal futuro, non so cosa succederà con questa pandemia che non si arresta e ha invaso il mondo. E non so cosa succederà a noi

due, al nostro amore appena nato, ma già così vivo e intenso, ma intanto siamo qui, insieme. Ho vissuto in prima persona questo virus che ci ha invasi, ho vissuto la quarantena, ma tutto questo non mi ha portato solo angoscia e dolore: mi ha portato l’amore, come un fiore che nasce da una crepa dell’asfalto.

…E spero che questo mio racconto riesca a trasmettere un pochino di speranza, di gioia e serenità, che possa portare un sorriso sul viso di chi ha sofferto, di chi è solo com’ero io, di chi si è fatto abbattere e di chi ha ancora voglia di tornare ad incontrarsi senza paura.

 

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