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CAREGIVER COVID. ZERO di Fortunato Nicoletti [concorso letterario]

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Concorso Letterario de “La Voce di Venezia”. Prima edizione: “Racconti in Quarantena”

Sono convinto che essere nato a Napoli e sentirmi visceralmente parte del sud del mondo mi abbia donato una anima nera.
Direte: sai che fortuna. Le anime nere sono solitamente cattive, quasi bastarde, sicuramente perse. Io invece mi ritengo fortunato, perché quel buio che per anni stava lì, celato ma visibile, mi ha letteralmente illuminato proprio nel momento nel quale ne avevo assoluto bisogno.

Non so quante vite ho vissuto, né quante ne avessi progettate prima che arrivasse lei.
Posso però affermare con certezza che quando è arrivata, ho capito che fino ad allora avevo semplicemente “campato”. E col freno a mano tirato.

Lei è Roberta. Mia figlia. Una bimba gravemente disabile a causa di una malattia genetica rarissima, quasi unica. È stato il primo caso conosciuto e diagnosticato in Italia di “displasia campomelica acampomelica”, patologia talmente complicata che la sola etimologia delle parole sembra negare la possibilità della vita.

Nei trattati la si definisce così: anomalie scheletriche (ossa lunghe incurvate e sottili, anomalie del bacino e del torace, undici paia di costole invece delle normali dodici) e anomalie extrascheletriche (dismorfismi facciali, palatoschisi, ambiguità sessuale e malformazioni cardiache, cerebrali e renali).

Una malattia è rara quando colpisce non più di 5 soggetti ogni 10.000 persone, la displasia campomelica colpisce 1 su 300.000 nuovi nati e pochissimi di questi superano il primo anno di vita. Della variante “acampomelica” in tutto il mondo, ci sono dieci casi come quello di mia figlia.

Nelle prime 72 ore Roberta almeno due volte ha smesso di respirare per interminabili minuti. E il nero della mia anima è diventato buio e lugubre.
Poi però ha ripreso, perché lei la vita non ha mai voluta abbandonarla. E io ho capito di avere il dovere di difenderla. Anche da solo. Anche in tempi di Covid.

I genitori dei disabili sono figure mitologiche chiamate caregivers.
Usiamo oramai parole inglesi che fanno figo eppure basterebbe chiamarlo semplicemente lavoro, a tempo pieno ed usurante, perché nessuna altra professione ti impegna 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana e 365 giorni all’anno, notti e feste comandate comprese, finché morte non vi separi…
Essere un caregiver è così impegnativo, assorbente ed usurante che il lavoro che si fa invece per mangiare, per pagare l’affitto e le cure della propria figlia, diventa quasi riposante: uno svago, quello che serve per tirare il fiato. Anche se come me fai il vigile del fuoco, hai turni a volte difficili, ti occupi di situazioni di crisi e di salvare vite.

Finché non arriva il Covid 19. In quel momento andare a lavorare diventa non più uno svago, ma un lusso. E non te lo puoi permettere, perché devi prenderti cura di tua figlia.

Devi assicurarti che respiri, cambiarle le medicazioni, lavarla, darle le terapie, da mangiare. Devi monitorare i suoi parametri, cercare di capire se sta bene, se fa la pipì, se ha fame, se ha sete. I suoi polmoni sono così fragili che devi evitare qualsiasi benché remota ipotesi che entri a contatto col virus.

Significa che non può entrare nessuno in casa, nemmeno gli infermieri che tutti i giorni danno una mano a me e a mia moglie ed alla mia famiglia. Non possono entrare perché nessuno ha fatto loro un tampone ieri e neanche un test sierologico oggi e non possiamo monitorare la loro salute. Perché non ci sono le mascherine e i camici necessari per evitare che trasportino il virus: non ci sono per loro e nemmeno per noi.

All’inizio non mi sono fatto spaventare: all’inferno sono abituato. Ho pensato che bastasse barricarsi in casa, sospendere qualsiasi visita da ospedali e cliniche, interrompere l’assistenza quotidiana e qualunque tipo di contatto, anche dal resto della famiglia.

Ho chiamato il lavoro e ho dovuto trovare una soluzione per dire che mi sarei preso una pausa. Ho detto che non sarebbe stato a lungo: presto qualcuno si sarebbe ricordato di noi, ci avrebbero dato test e tamponi, li avrebbero dati agli infermieri e ai medici che vengono a casa nostra, ci avrebbero detto cosa fare in caso sintomi sospetti.

Mi sbagliavo. Sono passati 120 giorni. Non sono ancora tornato a lavorare.

Sono uscito di casa due volte, da allora: la prima per protestare sotto alla regione, la seconda per manifestare in Piazza Duomo.

Il nostro lockdown non è ancora finito: voi “comuni mortali” siete nella fase tre, noi siamo in una perenne fase uno. La cosa peggiore è che inizio quasi ad assuefarmici. Succede questo, quando perdi la speranza.

Ho passato marzo e aprile a guardare le immagini dei miei colleghi in televisione. I medici salvano le vite, ma lo fanno anche i vigili del fuoco. Mentre io ero murato dentro una casa per curare mia figlia, i miei colleghi e amici portavano soccorsi alla popolazione, allestivano strutture, offrivano supporto. Più ascoltavo le storie, più la mia frustrazione aumentava.
Mi sono sentito inerme ed abbandonato. Mi ha devastato.

Ma non avevo scelta. Moltissimi colleghi sono venuti in contatto col covid, alcuni sono stati settimane in terapia intensiva, qualcuno di loro non ce la ha fatta.
Io non potevo permettermi di contagiare Roberta: ha già passato tre mesi intubata, ed un anno in rianimazione, non avrebbe retto un’altra scossa.

Così ho smesso gli infinitesimali momenti di svago che mi ritagliavo prima del coronavirus. Da 4 mesi non faccio un giro in scooter, non prendo un caffè al bar con mia moglie, non chiacchiero coi colleghi. Sono murato vivo con la malattia di mia figlia.

Da 120 giorni leggo delle difficoltà dei ristoratori, delle proteste dei parrucchieri, addirittura delle violazioni delle libertà individuali. Sulle difficoltà enormi delle persone con disabilità, sui fratelli di queste persone, sui genitori, sulle famiglie però non ho letto quasi nulla.

Ecco i fratelli. Essere figli di un caregiver, senza essere disabile, deve essere qualcosa che ti sconvolge completamente l’esistenza e non solo e non tanto per la preoccupazione che un evento qualunque all’improvviso possa portarsi via il fratello o la sorella, ma per tutto ciò che inevitabilmente viene a mancare, conseguentemente all’arrivo della disabilità in famiglia. Sì perché la disabilità non ti avvisa quando si presenta e non chiede neanche il permesso per entrare, lo fa di prepotenza, e immediatamente fagocita tutto e tutti quelli che trova sul suo cammino, perché quando arriva la disabilità si ammala tutta la famiglia.

Non ci sono notizie su quando finalmente si farà il monitoraggio sanitario di quelli che devono aiutarci, senza rischiare di contagiarci. Quelli che potrebbero restituire a noi la nostra, di vita. Un limbo dal quale sembra non esista possibilità di uscita.

Vi siete sentiti tutti sentiti prigionieri per qualche mese. Io, noi, siamo ergastolani, senza possibilità di sconti di pena, per il solo peccato, evidentemente mortale, di amare incondizionatamente la propria figlia. Accettando, ma NON passivamente, il destino riservatole.

La disabilità non è iniziata col covid e non sparirà, purtroppo, con la fine dello stesso. Un secondo dopo aver saputo la diagnosi di Roberta dal genetista, le ho preso la mano e, mentre lei mi fissava con quei suoi magnetici occhi, le ho promesso che avremmo lottato insieme per sempre. Sto mantenendo la promessa. In attesa che altri mantengano le proprie e ci riconsegnino alla nostra vita.

 

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6 persone hanno commentato. La discussione è aperta...

  1. Molto bello storie vere come questa purtroppo ci sono e sono molte le persone che la vivono GLI INVISIBILI li chiamiamo o i guerrieri.finche si ha la forza e l’età per combattere

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