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Reddito di cittadinanza, qual è il prezzo della dignità?

La povertà è una tragedia del nostro tempo, figlia come dice il Papa della povertà di giustizia e di una serie di mali collaterali

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Reddito di cittadinanza, qual è il prezzo della dignità?

Reddito di cittadinanza, o meglio, di sopravvivenza, a ben vedere di travagliata sussistenza e di scarso reddito e credito per la propria autostima.

Quel reddito lo possono richiedere i poveri, i disoccupati, gli sfrattati, i depressi, coloro i quali non hanno più fiducia nelle proprie forze, né delle promesse di lavoro deluse, quelli e quelle che in quanto poveri sono soggetti alla beneficienza degli uomini buoni e alla durezza di chi li ignora, quando non li sfrutta.

Poi ci sono quelli che vivono per strada, sepolti dall’indifferenza dei più, quelli che in tasca non ce l’hanno la carta d’identità e che se gli chiedi dell’Isee, sgranano gli occhi e ti voltano le spalle. E ci sono quelli che non chiedono niente e quando lo fanno è solo per provvedere ai propri figli, ai bisogni essenziali perché una madre, un padre, la dignità se la mettono in tasca per sfamare e scaldare la famiglia. I vecchi non ci sono, non fanno testo. Finiscono sepolti negli ospizi, isole dentro le città.

Piaccia o non piaccia a questa civile società, ci sono quelli che vivono per strada e che ogni tanto, anche a Venezia, qualche mano li scalda dal freddo accendendo un fiammifero sul loro letto di cartone. (Però ci sono anche quelli che donano le coperte).

A quelli il reddito di cittadinanza non glielo dà nessuno, perché i poveri, già lo diceva Giovanni Boccaccio e poi Cesare Beccaria, non sono titolari di diritti, in quanto invisibili: forse provocano compassione per quel loro mostrarsi magri, stremati, improduttivi, esteticamente impresentabili, straccioni, senza denti: volti da dimenticare.
Michel Foucault si è chiesto ne ‘La vita degli uomini infami’: “Perché non andare ad ascoltare quelle esistenze vinte, per sapere chi sono, cosa sono state e perché vivono ancora?”.

La deontologia della scrittura e della coscienza in questa riflessione sul reddito di cittadinanza, ci obbliga a riconoscere che il pensiero politico e umano di aiutare chi è in difficoltà, sia di per sé un buon proposito. Ma da solo non basta. Un cinquantenne licenziato e disoccupato chiede lavoro, non vuole sentirsi ingranaggio di un percorso assistenziale sorvegliato.

Rimandiamo a una successiva analisi i conteggi, i parametri perché crediamo meriti soffermarsi a ragionare sul concetto di aiuto che lo Stato intende devolvere ai suoi cittadini. E al sentimento di chi si troverà con una tessera in mano a far la spesa al supermercato temendo di essere punito o escluso dalla lista dei beneficiati se si compra una pianta fiorita, magari per consolarsi dell’umiliazione.

Quel controllo su come si spendono i soldi annienta ogni ottimismo, una persona diventa un cane con il guinzaglio al collo, tenuto da chi ti osserva e ti può punire dopo la verifica degli scontrini.

Poi c’è quel lavoro promesso che devi pur accettare, se c’è. Te lo offrirà un Centro dell’Impiego e se c’è, dov’è? “Gli ingrati” che criticano quel provvedimento qualche suggerimento lo danno. Perché non aumentare le pensioni per chi ha poco e promuoverne per chi non ha niente? Perché non privilegiare il lavoro, unico e inviolabile diritto previsto fin come enunciato dalla nostra Costituzione? Perché non offrire una sanità e un aiuto sociale adeguati al bisogno di salute fisica e psicologica? Perché si sono diminuiti i contributi economici delle periferie, lasciando un vuoto rispetto i tanti e complessi bisogni che esprimono?

La mancanza di lavoro, di casa, di opportunità per i giovani che si sentono ingannati e senza futuro che cercano fortuna in altri paesi; le fabbriche che chiudono i battenti, le aziende moribonde che non ce la fanno a retribuire i dipendenti, i pensionati come formichine attente a spender poco o niente per mangiare o vestirsi e per evitare di chiedere qualche decina di euro ai figli, spesso anche loro in difficoltà.

Una tessera in mano è meglio che niente, L’umiliazione è difficile da assimilare, ma chi povero non è, non lo capisce. Qual è il prezzo della dignità? Ed è superbia rivendicare l’orgoglio di essere trattati con rispetto?

Chi è povero si sente minacciato da altri poveri, magari stranieri, che pensa possano togliergli anche quel poco che ha. Gino Strada, fondatore di Emergency, conferma “ Oggi in Italia c’è una guerra tra poveri, e questo è triste. ‘Italiani prima! Vengono a portarci via il lavoro!’. S’è visto, gli sbarchi sono calati del 70 per cento e nessun effetto sui tassi di occupazione. La mia più grande preoccupazione è che la gente non dica nulla”.

Ma cosa possono dire i poveri se non hanno voce e se si fa credere loro che lo stato di povertà che vivono derivi da chi è più povero di loro?
Osserva Don Luigi Ciotti da Libera «La povertà non è cercata, ma creata dall’egoismo, dalla superbia, dall’avidità e dalla ingiustizia». Sono parole del messaggio di Papa Francesco per la “II Giornata mondiale dei poveri” del 18 novembre. Parole che ci ricordano che la povertà è una questione che deve toccare i cuori e scuotere le coscienze, che non può lasciarci inerti o indifferenti.

I dati sono tristemente noti: 5 milioni di poveri assoluti e 9 milioni di poveri relativi in Italia. Circa un miliardo di persone nel mondo che soffrono la fame.

La povertà è una tragedia del nostro tempo, figlia come dice il Papa della povertà di giustizia e di una serie di mali collaterali: la corruzione, gli abusi, l’illegalità, il crimine organizzato, la concentrazione delle ricchezze e lo sfruttamento indiscriminato delle terre.

L’attenzione per i poveri non può essere dunque un fatto occasionale, sporadico, e nemmeno solo uno slancio di tipo assistenziale: la solidarietà, cosa bellissima, non può surrogare il vuoto dei diritti. Deve essere una priorità politica.

Una politica è servizio al bene comune solo se rimuove le cause della povertà, se riduce il deficit di giustizia sociale (più importante di ogni deficit di bilancio), se dà spazio alle speranze invece di fomentare le paure, se considera la povertà un crimine contro la dignità delle persone, un crimine di civiltà. Se contrasta la fame materiale senza dimenticare la fame di speranza, di dignità, di sapere. Se non considera la speranza un reato e la costruisca a partire dai poveri, da chi dalla speranza è stato escluso.

Ma politica non è solo quella dei governi e dei partiti. “Politica” è la vita di ciascuno di noi nella misura in cui ogni nostra scelta, ogni nostro gesto producono conseguenze, concorrono al bene o al male collettivi. Ecco allora che lo stare dalla parte dei poveri è un impegno di tutti.

Agire sulla povertà relativa o assoluta significa quindi pensare la povertà con determinazione e voler agire di conseguenza mettendo in forze le positività dell’aiuto insieme alla volontà di volercela fare, qualora un’occasione decente arrivasse per la ricostruzione di una vita.

Andreina Corso

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8 persone hanno commentato. La discussione è aperta...

  1. Condivido totalmente la riflessione di Andreina. Un’analisi così profonda non poteva essere fatta meglio.
    Tutti sono liberi di esprimere la propria opinione, ma per giudicare questo articolo come “aria fritta” ce ne vuole……..!
    Anna ds.

  2. L’articolo è vero …intenso…profondo e racconta il sentire che purtroppo appartiene a molti…..di conseguenza..l’aria che si respira leggendo… è palesemente tutt’altro che fritta…..

  3. Pasquino se non mi sbaglio ultimamente scrive spesso per criticare e basta, perché non dice la sua in maniera costruttiva sull’articolo o sull’argomento?
    Personalmente lo trovo un bell’articolo.
    Grazie

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