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Barbie, universo coloratissimo e confettato che strappa applausi transgenerazionali

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Sfuggente come un’anguilla, ”Barbie” di Greta Gerwig appare come un oggetto che non si sa come afferrare. Se lo leggo come blockbuster ecco affiorare la sua presunta natura sovversiva, antiBarbie. Ma a prendere atto della rilettura in chiave neofemminista della bambola più famosa di sempre ecco riemergere prepotentemente il prodotto di consumo della Mattel, che da decenni si è imposto come spacciatrice di merce per i sogni all american di milioni di ragazzine sparse in tutto il globo.

Bionda, perfetta, 90-60-90, impeccabile, ineffabile bambola wasp che però nei decenni ha saputo mutare accompagnando il mutare dei tempi. E l’incipit del film, con la divertentissima citazione di “2001: odissea nello spazio” afferma sia lo status del giocattolo per piccole donne che crescono, sia la dirompente trasformazione del concetto di bambola. Basta porcellana, basta pezza, basta pannolenci. Plastica; il prodotto dell’oro nero che ha cambiato le nostre vite. Plastica coloratissima, modellabile in ogni forma e colore.

Ma forse sto sopravvalutando “Barbie”. Che resta nel complesso un film godibile, con una straordinaria messinscena e la fotografia perfetta di Rodrigo Prieto, oltre che alle musiche curate da Mark Ronson. Godibile dicevo, ma anche un po’ sopraffatto dal suo cerchiobottismo, tanto quanto dal suo citazionismo (abbiamo, tra le tante fonti, “Forrest Gump”, “The Truman show” e “Fight Club”). Per non dire della morale “dalla parte delle bambine” contemporanea, esposta con spiegoni didascalici che appesantiscono il tutto.

Iniziamo dalle cose belle: oltre all’eccellente lavoro dei reparti tecnici (la Barbieland è un miracolo visivo) abbiamo lei: Margot Robbie, produttrice del film. La Barbie perfetta. Attrice di sconfinata bellezza e di conclamata bravura che regge perfettamente il gioco delle varie sfaccettature di questa Barbie Stereotipo (ovvero la prima delle Barbie create dalla signora Ruth Handler, nel film interpretata da Rhea Perleman). Al suo fianco l’altrettanto valido Ryan Gosling, attore che quando trova il ruolo giusto mostra doti non sempre evidenti. Attorno a loro l’universo Barbie, definito da molte tipologie di Babie e Ken avvicendatesi nel corso degli anni.

L’inizio, dicevo è sfavillante; un universo coloratissimo e confettato in cui ogni personaggio vive ogni giorno la stessa splendida giornata di sole, a fare le stesse meravigliose cose, senza sesso e senza morte. Docce che lavano senz’acqua, latte che disseta senza scendere nella tazza, piedi perfettamente modellati sulla posizione tacco 12, con o senza scarpe. Nessuno si fa davvero male e se succede arriva una Barbie medico che cura senza effettuare alcuna operazione. Diciamo che se Barbie ride, i Ken un po’ meno, relegati nel ruolo secondario di eterni fidanzati dell’unica regina del gioco. Poi qualcosa si spezza; la Barbie stereotipo viene raggiunta da un “brutto pensiero”. La connessione tra lei e la sua proprietaria ha subito una frattura.

E così anche l’incanto del film, che si svolge con la solita trama del viaggio dell’eroe alla ricerca di sé stesso. La Barbie-Ulisse, la Barbie-Pinocchio che dopo una serie di peripezie, il ricongiungimento con la proprietaria, che non è la Figlia, riluttante al mito di Barbie e quindi già neo femminista, ma la madre di quest’ultima. Interpretata non a caso da quell’America Ferrara antitesi di qualunque Barbie nella serie “Ugly Betty”. Che fatalità lavora per la Mattel, capitanata dal creator Will Ferrell. E qui iniziano i saliscendi di un film che quando diverte improvvisamente diventa noioso e quando annoia subito ridiventa spassoso.

Il filo (ideo) logico è quello neo femminista, all’americana. Ovverosia più sorridente di quello del passato ma anche più soggiacente a certo dogmatismo che fa a pugni con tutti i compromessi di una generazione edonista e allo stesso tempo riluttante a sottomettersi alle logiche del consumo. Una generazione Barbizzata ma antiBarbizzazione, che però non sa resistere al fascino dei giocattoli della propria infanzia. Esponente di spicco di questa mentalità è il personaggio outsider della Barbie Stramba (Kate McKimm), ovverosia la sintesi di tutte le Barbie strapazzate, ridipinte, mutilate del mondo (con qualche accenno alla Harley Quinn di “Suicide Squad” interpretata proprio da Robbie).

Per dire: quando abbiamo Will Ferrell in azione siamo dalle parti della solita commedia fracassona e puerile alla Saturday Night Live. E questo porta il film della Gerwig nelle parti “basse” del cinema passatempo. Accanto a ciò abbiamo invece la buffa caratterizzazione del Ken Stereotipo che, scoperto che nel mondo comandano i maschi, decide di importare a Barbieland il patriarcato, condito con il culto dei cavalli. D’altronde Ken in città non perde tempo a vestirsi da cowboy, la scelta appare naturale. Ma alla fine le cose si ricompongono, tranne che per la protagonista, che dismetterà i panni della Bambola n.1. “Com’ero buffo quand’ero un burattino”.

Ken e Barbie nel film
Ken e Barbie nel film

Così va “Barbie”, un po’ sorprende, un po’ azzarda, un po’ le sue scelte anticonformiste ce le si aspetta tutti. Un po’ annoia, a causa di una sceneggiatura ambigua, scritta dalla regista in coppia col compagno Noah Baumbach e certe ripetizioni che non giovano al ritmo del film. Ma non possiamo certo definire il lavoro della Gerwig una scommessa persa. Tutto sommato, tenuto conto delle istanze e delle attenuanti, forse “Barbie” è il migliore dei film possibili sulla Donna Perfetta. Tutto il rovescio di quel “La fabbrica delle mogli” di Paul Bartel, il cui finale distopico è l’esatto contraltare di quello di questo film. O del mondo dorato ma fasullo di “Don’t worry darling” di Olivia Wilde, dove si rileggeva l’oggettificazione della donna in chiave dickiana. Comunque il film è un trionfo al botteghino e in alcune scene partono gli applausi (transgenerazionali) a scena aperta. Tutto sommato, vedere i film con tale calore, è sempre una cosa bella.

BARBIE
(2023)
Regia: Greta Gerwig
Con Margot Robbie, Ryan Gosling, Will Ferrell, America Ferrara

Giovanni Natoli

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