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Stato-Mafia: quello che è stato non è reato

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Stato-mafia: 13 anni di indagini per approdare ad… un nulla di fatto.
La storia sarebbe cominciata dopo l’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima nel marzo 1992 ma sarebbe entrata nel vivo in un momento cruciale, tra l’attentato a Giovanni Falcone e la strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino.
In quella stagione sarebbero cominciati gli incontri riservati del comandante del Ros, Mario Mori, e del suo braccio destro Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino.
Per la Procura di Palermo da lì sarebbe partita la “trattativa” tra Stato e mafia.
No, hanno sempre sostenuto i due ufficiali: quella era un’attività investigativa, che trova ora riscontro nella sentenza d’appello, con cui si mirava a fermare le stragi e a catturare Totò Riina.
Le posizioni non sono mai cambiate sin da quando – era il 2008 – il caso è diventato un fascicolo giudiziario: 13 anni di indagini sfociate nell’assoluzione di investigatori e politici.
Anche grazie alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (poi giudicato inattendibile in molte sue ricostruzioni).

Solo nove anni fa, il 29 ottobre 2012, la vicenda è approdata in dibattimento con l’udienza preliminare conclusa con il rinvio a giudizio di Riina e del cognato Leoluca Bagarella, di Bernardo Provenzano, Mori, De Donno, Massimo Ciancimino, Marcello Dell’Utri indicato come il tessitore politico della “trattativa”, Giovanni Brusca, Antonino Cinà medico di Riina e postino del “papello” con le richieste dei boss, Antonio Subranni all’epoca capo di Mori.
A giudizio era finito anche l’ex ministro Nicola Mancino ma solo per falsa testimonianza. Sarà assolto.
Tra gli accusati c’era anche l’ex ministro Calogero Mannino dal quale tutto sarebbe partito: per l’accusa avrebbe innescato proprio lui la “trattativa” dopo avere ricevuto pesanti minacce dalla mafia.

Mannino è però uscito di scena: ha scelto il rito abbreviato ed è stato assolto definitivamente in Cassazione l’11 dicembre 2020.
È una sentenza che ha messo in discussione l’impianto del processo, come dicono ora anche i giudici di appello.

In primo grado il dibattimento, presieduto da Alfredo Montalto, era cominciato il 27 maggio 2013 e si era concluso con condanne molto severe il 20 aprile 2018, quando Riina e Provenzano erano già morti.
La pena più grave – ben 28 anni – era andata a Bagarella. E poi 12 anni per Mori, Subranni, Dell’Utri e Cinà, 8 per De Donno.

La condanna a 8 anni di Ciancimino (per calunnia) è già prescritta. Prescritte anche le accuse a Brusca.

Per i giudici di primo grado la “trattativa” dunque ci fu ed era illegittima perché protagonisti erano uomini delle istituzioni e soggetti che “rappresentavano l’intera associazione mafiosa”.

Su questa tesi accusa e difesa hanno ingaggiato nel giudizio di appello, cominciato il 29 aprile 2019, un confronto molto serrato.
E stavolta il verdetto è stato ribaltato.
C’erano le minacce della mafia ma non la “trattativa”.

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