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Otto Marzo dedicato – Donne che vivono nelle case di Riposo. Di Andreina Corso

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Otto  Marzo dedicato - Donne che vivono nelle case di Riposo. Di Andreina Corso

Ecco, vi vedo, mi fermo e vi osservo.
Il capo chino, le mani a scaldarsi sotto le ascelle.
Siete là, foglie staccate dal ramo,
finite in quel posto trascinate dal vento.
La luna dell’alto vi guarda e piange.
Chi siete,
qual è il vostro nome smarrito nelle ore senza domani,
perché è sparita la luce dai vostri sguardi
e dove avete nascosto il vostro sorriso di donna?
Il mondo del fuori vi guarda e vi ignora,
rami secchi di gemme consunte i ricordi
annebbiati dalla mente pietosa
accolgono i bianchi capelli nevosi.
È là, in quel posto, in quella cuccia
a scontare la condanna di essere vecchie
che l’umanità si disperde nei passi lontani.

Andreina Corso

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2 persone hanno commentato. La discussione è aperta...

  1. Egregio signor Alessandro,
    La ringrazio per averci consegnato la voce di una persona anziana che esprime tutto il malessere, l’umiliazione di sentirsi destinata in un luogo che non è la sua casa, che sa di non uscire più da quel ‘posto’, che deve adattarsi a nuove abitudini, a nuovi volti, spesso tristi e piegati, come il suo. La separazione dalla propria famiglia, dagli affetti più cari, spesso distrugge un corpo già indebolito dall’età avanzata e lo sconforto dell’anima è irreversibile. Va detto, per onestà intellettuale che vi sono residenze per anziani che hanno molto a cuore il benessere dei loro ospiti. Curano iniziative culturali, stimolano gli interessi con attività mirate e cercano di restituire un’armonia ferita nell’animo. Lo fanno con convinzione e generosità e sono ammirevoli. Talvolta, nell’incontrare gli anziani durante i nostri appuntamenti di lettura, di reciproco ascolto, mi chiedo:cosa sappiamo in fondo di loro? E di noi? Perché esistono questi luoghi? Cosa è successo alla nostra umanità? Ci sono situazioni davvero difficili da affrontare a casa e si sa che oggi la vita è una corsa ad ostacoli, i familiari spesso raccontano il processo di necessità che li ha portati ad affidare il padre o la madre ad una residenza mirata. Anche loro soffrono nella stragrande maggioranza dei casi, ma che fare, dicono, senza un’assistenza domiciliare sociosanitaria adeguata, come conciliare lavoro e esigenza di cura? Tanti interrogativi, anche inespressi accompagnano l’ultimo atto di una vita confortato dai parenti che li vanno a trovare (c’è anche chi non ha nessuno, purtroppo. . .). Sui comodini accanto al letto ci sono le fotografie dei figli e dei nipoti, talvolta le nascondono fra le coperte sulla carrozzella e poi all’improvviso le mostrano alle amiche, alle volontarie, alle animatrici, lo sguardo si risveglia, sorridono, qualche lacrima di felicità da dividere come il pane tra di noi, che più tardi però usciamo e torniamo a casa.
    Grazie Alessandro

  2. Complimenti alla stimata Andreina. Testo che induce a provvide riflessioni.
    Vorrei qui proporre una lettera molto toccante di qualche tempo fa, scritta da un anziano, che induce alla riflessione ove le parole non servono più per comprendere il loro stato d’animo.

    “Quanti anni ho? Non lo so più, la mia memoria fa brutti scherzi ormai, qualcuno mi ha detto 88. Da quando sono stato male non riesco più a parlare, ma riesco ancora a pensare e scrivere. Da quando sono stato male i miei figli mi hanno ricoverato in questa struttura che chiamano casa di riposo: chissà perchè poi riposo, il riposo richiama alla serenità, dopo la stanchezza, dopo gli affanni, eppure quella stanchezza, quegli affanni, erano vita e ora c’è solo attesa, un’attesa senza speranze e senza gioia.
    Qui, dove sono, dipendo da delle badanti e dai loro umori e qualcuna si innervosisce perchè deve cambiarmi il pannolone, o urla perchè non voglio bere l’acqua quasi tiepida che mi fanno ingurgitare.
    Dicono che ho la demenza senile perchè non parlo e tengo spesso gli occhi chiusi. Eppure capisco, capisco lo stato di abbandono affettivo in cui versiamo. Siamo diventati improduttivi, anzi lo eravamo già quando siamo andati in pensione e si sa, nella società fondata sul mercato se non produci più sei fuori, fuori da tutto. Tra noi detenuti in case di riposo non ci parliamo, nemmeno quelli che hanno ancora voce. Pensare che un tempo i vecchi erano quelli che parlavano di più, li mettevano a capotavola, con tutta la famiglia riunita e i figli e i nipoti e tutti ascoltavano il grande vecchio quando raccontava loro della sua vita trascorsa, delle esperienze, dei consigli che la vita gli aveva insegnato.
    Noi invece siamo tutti lì, sulle nostre carrozzine, in una saletta a guardare una televisione che parla da sola, senza pubblico e senza attenzione, la mattina in attesa del pranzo, il pomeriggio in attesa della cena e poi di nuovo così, giorno dopo giorno in attesa, in attesa di una fine che tarda a venire, come una liberazione per tutti, meno che per l’istituto che perde un cliente, anche se i clienti certamente non mancano.
    Quando anche quel poco di memoria se ne andrà si spegnerà la luce e rimarranno solo le stanze semivuote e i corridoi bianchi di questa casa che nemmeno il sole riesce più a scaldare”.

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