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L’Inganno, tutto il cinema di Sofia Coppola

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L'Inganno, tutto il cinema di Sofia Coppola

Bisogna dare atto a Sofia Coppola che la riproposizione in schermo del romanzo di Thomas Cullinan é una scelta logica, in virtù dei possibili collegamenti tematici con alcune sue opere precedenti, come “Il giardino delle vergini suicide”.

Questa onestà mi è costata un po’ di sforzo, nel tentativo di vedere e giudicare con distacco una pellicola che vanta un precedente che è nella collezione dei miei film del cuore; e cioè quel “La notte brava del soldato Jonathan” del 1971. Il film, diretto da Don Siegel, spiazzò gli spettatori, che si aspettavano un nuovo film d’azione con l’attore e il regista del primo Callaghan e si trovarono di fronte a un meraviglioso dramma gotico psicologico, fiammeggiante ed entropico, in cui le varie carte messe in gioco venivano ribaltate grazie a una messinscena geniale e feroce, grazie anche alla livida fotografia di Bruce Surtees.

Conosco quel film sin dalla fine dei ’70: lo davano spesso a tv Capodistria e io, all’epoca fan di Sergio Leone, non perdevo una pellicola con Eastwood. Ma, nonostante l’iniziale sconcerto, il fascino beffardo e grottesco del lavoro di Siegel mi conquistò. L’ho rivisto ieri sera per l’ennesima volta, giusto per fare un confronto con la nuova versione. Resta sempre un capolavoro.

Molti critici hanno lodato la nuova versione della Coppola e han suggerito di non fare paragoni; io sono in parte d’accordo. La cosa importante è vedere come da un canovaccio comune un autore riesca ad esprimere la sua poetica. Ma penso anche che l’accostamento delle due pellicole possa essere fatto se non altro per capire lo spirito di due decadi differenti e proprio per estrapolare due modi diversi di “fare” un racconto morale.

Non nascondo che il film di Siegel resta inscalfito nel confronto; tutto ciò che oggi abbiamo ereditato dalla decade dei 70 in quel “Soldato Jonathan” si respira di prima mano.

Per la Coppola possiamo supporre, se non erro, che la morale della storia sia che le fanciulle dovrebbero restare dentro un gineceo, protette dal mondo esterno e al riparo dal pericolo del maschio.

Non ho trovato quella difesa dalla guerra e dal mondo esterno tout court (come ne “Le vergini suicide”) come quasi tutta la critica insiste a trovare e che era ben presente nel film di Siegel; il mondo è un inferno, la guerra, vista di lato, appare terribile, gli esseri umani sono predatori e vittime allo stesso tempo. In quel film del ’71 le prede erano molte e i cacciatori pure.

Il personaggio della pancia blu McBurney è un maschio subdolo e seduttore ma allo stesso tempo risvegliava tutti i fantasmi nascosti nella cantina dell’anima della rettrice Martha, dell’assistente Edwina e di gran parte delle ragazze.

Il film comincia con la piccola Amy che salva Mc Burney e in cambio lui la bacia sulle labbra. Una bambina di appena dieci anni…. Oggi sarebbe a rischio denuncia ma all’epoca si giocava forte.

Sofia Coppola elimina tutti i fantasmi dei vari passati delle protagoniste che giocano la partita grossa con McBurney; non ci sono deliri incestuosi/religiosi, fantasie represse che un accenno al passato da parte di Edwina ci faceva intuire. Non c’è la serva nera, elemento paradossale del film (una nera che non si fida di un nordista…). Abbiamo un collegio in cui i bollori sono soffocati da una messinscena meticolosamente curata in cui il McBurney di turno (Colin Farrell) è un personaggio spento e poco virile per cui il taglio della barba richiesto da Miss Martha non è metafora di castrazione e il cui corpo lavato e curato dalla stessa rettrice (una sempre ottima Kidman) è solo un bel corpo e non un grumo di muscoli sensuali. McBurney è curato e lindo in maniera perfetta; non gli restano le mani orridamente bruciate sino alla fine. Il suo rapportarsi a Edwina e giurarle amore sembra quasi un gesto sincero…

Bene, ho fatto quello che mi ero ripromesso di non fare: paragonare i due film. Lo so che non è intelligente farlo. Ma è altrettanto poco intelligente non farlo quando molta critica nega al film di Siegel che si tratti di una storia di donne in difesa dal mondo esterno e da loro stesse. Perché di questo si tratta in entrambe le pellicole; in più, nel predecessore la carne al fuoco è maggiore e non proviamo un senso di assoluzione per l’operato di Miss Martha e le ragazze.

Il mondo è una fucina di creature vittime dei loro fantasmi e delle loro debolezze e/o la volontà di vivere emerge feroce nonostante tutto il lavoro fatto per coprire la brace. Ma nel film di Coppola non abbiamo niente di ciò se non l’ennesimo, anodino limbo delle ragazze.

Poi sulla forma del film non c’è nulla da eccepire; girato in pellicola, in modo da far risaltare le sia pur minime trine degli abiti e delle pieghe delle lenzuola; affondato nel controluce della fotografia di Philippe Le Sourd e quasi privo di musica che non siano gli uccelli e le cannonate lontane (un’idea buona). Nessun corvo dall’ala spezzata all’inizio, nessun presagio di morte e di rimosso del reale. Solo un gruppo di ragazze che per un attimo mette fuori la testa dalla loro Isola di Arcadia. Questo in fondo è tutto il cinema di Sofia Coppola.


L’INGANNO
(The beguilded, 2017)
U.S.A.
Regia: Sofia Coppola
con Nicole Kidman, Colin Farrell, Kirsten Dunst, Elle fanning, Angourie Rice

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