Luca Ferrari, giornalista/fotoreporter
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Martin Scorsese ce l’ha fatta. È riuscito a racconta la favola di cui tutti noi vorremmo essere protagonisti. Non importa in quale dei personaggi. Fanno tutti innamorare della Vita. Ha usato il 3D. Avrebbe potuto farne anche a meno. L’effetto tridimensionale è blandamente un gradevole di più. Nella Parigi degli anni ’20 il giovane orfano Hugo Cabret (Asa Butterfield), a insaputa di tutti, lavora ai delicati meccanismi degli orologi della stazione ferroviaria di Montparnasse. Mangia quello che trova. Poi un giorno, nel tentativo di arraffare un piccolo topolino a molla, si scontra con il proprietario del negozio, Georges Méliès (Ben Kingsley), che lo obbliga a svuotare le tasche scoprendogli un piccolo quaderno il cui contenuto sembra turbarlo non poco, e glielo sequestra. Il giovane deve assolutamente riprendere il prezioso libricino. Ad aiutarlo arriverà la figlioccia dello stesso venditore di giocattoli, Isabelle (Chloà« Moretz), che incontrerà di lì a breve. E nel tentativo di scoprire un mistero, risveglieranno una delle originali e più prolifiche fonti umane di meraviglia.
Dalle tante postazioni della sua occupazione, Hugo osserva il mondo sotto di lui. La stazione è un mondo a parte. Un non luogo. Ma nella foga del viavai quotidiano ci sono anche quelle figure che lavorano lì. Giorno dopo giorno. Metafora delle (poche) certezze nella vita. La loro amalgama è una morbida effusione di colori impressionisti. C’è il rigido ispettore Gustav (un grandioso Sacha Baron Cohen), zoppo per una ferita in guerra e spietato insieme al suo fedele doberman nello spedire in orfanotrofio qualunque monello scovino a rubacchiare. C’è la bella fioraia Lisette (Emily Mortimer), di fronte alla quale il gendarme nutre profondi sentimenti e verso cui prova ad allentare la rigida maschera marziale con qualche impacciato sorriso. C’è la posata Madame Emile (Frances de la Tour), titolare del Caffè, sempre insieme al suo adorato cagnolino che però mal vede la presenza dell’edicolante Monsieur Frick (Richard Griffiths), delicato spasimante che arriverà a prendersi un esemplare della medesima razza canina ma di sesso femminile, per avere strada libera verso il cuore della donna amata. C’è anche Monsieur Labisse (Christopher Lee), proprietario della libreria. Dietro la sua autorevole fierezza velatamente scroogiana, c’è il volto amorevole di un nonno buono che non lesina simpatia né un regalo (il manoscritto di Robin Hood) al timido Hugo. E c’è ovviamente lui, Méliès. Un corpo quasi estraneo. Custode di un segreto, e di un dolore. Grande quanto la sua passione.
Già orfano di madre e perso anche il papà (Jude Law) durante un incendio, il piccolo Hugo viene preso dall’alticcio zio Claude (Ray Winstone) che lo mette a lavorare sodo insieme a lui agli orologi della ferrovia. Insieme a qualche effetto personale, il ragazzino porta con sé solo un misterioso automa capace, se caricato, di scrivere e disegnare. È tutto quanto gli resta del caro genitore. Insieme avevano provato ad aggiustarlo ma una strana chiave a forma di cuore ne impedisce il funzionamento. Cammina lento il piccolo Hugo mentre il burbero parente lo porta con sé nella nuova dimora. Tiene in braccio quella macchina dai connotati umani come se fosse una creatura. Lo tiene in braccio come vorrebbe essere tenuto lui dal proprio babbo che invece non c’è più. Lo sguardo malinconico dell’essere inanimato incarna quella parte esanime dei nostri pensieri che lasciamo da parte, troppo delicati per essere sacrificati nel mondo. Nel taccuino portatogli via ci sono tutti i disegni dell’automa, e Isabel vuole aiutare il suo nuovo amico a rimetterci le mani sopra. Ancora di più quando scopre che la famosa chiave capace di risvegliare l’automa ce l’ha lei al collo. Lo stupore sarà immenso quando l’androide comincerà a disegnare un’immagine tratta dal film Viaggio nella Luna (pellicola cui rese omaggio anche la rock band americana Smashing Pumpkins nel videoclip Tonight, tonight – 1996) e firmata proprio con il nome del padrino della ragazza. La ricerca si sposta allora nella Biblioteca Cinematografica dove i due giovani scopriranno che Méliès è stato uno dei padri del cinema. A confermarglielo, l’autore del volume stesso che stanno leggendo, lo storico Rene Tabard (Michael Stuhlbarg) convinto che il suo regista preferito sia morto in battaglia.
In effetti è così. Il dramma della I Guerra Mondiale ha ucciso l’arte di Méliès. Non la verve dell’autore, ma ha affossato lo spirito dell’uomo e tutta quella fantasia e creatività che tanto sapevano conquistare il pubblico. Ora, tutto quel mondo di celluloide non è che un ricordo sbiadito e per di più quasi interamente dato alle fiamme; metri su metri di film liquefatti per fare tacchi di scarpe da signore. Tabard però non ha dimenticato. Era un piccolo e paffutello bambino quando il fratello maggiore lo portò con sé sul set di Méliès. Ne rimase poeticamente colpito e ha portato avanti quell’ispirazione. Adesso può finalmente renderle omaggio. Dapprima alla musa del suo “maestro”, Jeanne (Helen McCrory), la moglie di Georges, costretta anche lei dall’affaticato marito a dimenticare il glorioso passato. Poi, dinnanzi a Lui in persona.
Un po’ Finding Neverland (2004, di Marc Foster). Un po’ Polar Express (2004, di Robert Zemeckis). Lasciando finalmente da parte le già ampiamente sviscerate incursioni nel mondo del dramma e del thriller, Scorsese dimostra una notevole capacità di raccontare favole da happy end, ostentando con funzionale delicatezza la malinconia dell’essere umano partorita dal fallimento delle soggettive speranze oniriche (tanto per Georges quanto per Hugo). Inventare sogni è la professione più bella del mondo. Costa però molta fatica, e una singola caduta può segnare una crisi irreversibile capace di sfociare nella rassegnazione di una lezione accettata mal volentieri, e solo per dovere di età . Hugo impara l’arte di riparare orologi dal padre. Meccanismi delicatissimi alla stregua delle emozioni umane. Per quanto esclamativa possa essere un’illusione, rimane lo specchio indissolubile di un’ambizione, dove le stelle indicano la strada da portare a termine rendendo ciascuno di noi un indispensabile e insostituibile congegno sentimentale.
Adesso ti chiedo solo di sognare insieme a me.
[16/02/2012]
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