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Giampaolo Manca, furti e rapine, poi la redenzione: “Ora faccio del bene”

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Più della metà della sua vita passata in carcere. E lui, Giampaolo Manca, che di anni ne ha 66, ne conta 36 trascorsi tra prigioni e sorveglianza speciale che l’hanno segnato non poco.

“Sono stanco – confessa Giampaolo Manca, ex malvivente veneziano conosciuto come “il Doge”, autore di numerosi furti e rapine che lo hanno portato agli onori della cronaca tra gli anni ’70, ’80 e ’90 – ma finalmente è finita: ritrovo la mia Venezia, ricomincia la mia nuova vita.”

Il suo nome è spesso apparso sui giornali accanto a quello di Felice Maniero, l’indiscusso boss del Brenta. Mala o mafia? “Macché mafia – commenta Manca – Faccia d’Angelo comandava solo quei sette/otto dei suoi che ripagava con una piccola parte dei bottini. Noi al massimo lavoravamo insieme: in quel caso le quote si spartivano equamente. “Mafia del Brenta” è un concetto creato da Maniero e dai magistrati che gli ha permesso di usufruire dei benefit riservati ai pentiti. Perché lui ha parlato ed è uscito dopo 13 anni, io invece ho scontato la mia pena per intero: ho pagato il mio debito con la società rispettando un codice che ora non esiste più”.

“Se rincontrassi Felice? Non guardo più al passato, a che servirebbe? Non avrei comunque indietro quegli anni. Voglio usare il tempo che mi resta per fare del bene”.

Giampaolo Manca proviene dal cuore di una Venezia d’altri tempi. Classe ’54, ha trascorso la sua infanzia nella zona di San Stae. “Mia madre era albergatrice – racconta – mio padre della Guardia di Finanza: sardo, vecchia scuola, era autoritario e violento con me e il mio gemello Fabio; ma eravamo ragazzini vivaci, nulla più. Sviluppammo un senso di ribellione verso quel mondo ‘borghese’ che ci volevano imporre, solidarizzando, piuttosto, coi coetanei delle zone popolari.”

La prima “impresa” a 13 anni. Assieme a Fabio rubò il motoscafo Riva di Aristoteles Onassis.

fratelli manca con la nonna box
I fratelli Manca con la nonna
“Quella sera si teneva una festa privata con tutti i divi del jet set internazionale. Avevamo la passione per le barche: scorgemmo alla Salute quel meraviglioso natante e decidemmo di farci un giro. Ma eravamo degli sbarbati, tant’è che poi scendemmo e lo lasciammo attraccato”.

 

“Un’altra volta prendemmo un vaporetto dell’ACTV: eravamo ancora piccoli, e avere davanti un timone così grande ci diede l’illusione di essere su un veliero. D’un tratto sentii il fischio di mio padre: pensai che mio fratello volesse farmi uno scherzo, invece era proprio lui, su una barca della polizia, che ci raggiunse e ci riempì di botte fino a quando non tornammo a casa”.

Ma le ferree punizioni del genitore non ebbero il risultato sperato “Anzi, più lui era violento e più mi ribellavo alle regole. Volevo suonare la batteria e non avevo i soldi? Rubai dei travellers cheques a un cliente di mia madre, andai da Ivo Regazzo e la comprai”

A diciassette anni il primo ‘colpo’. “Eravamo due minorenni e tre ragazzi più grandi: un collezionista inglese aveva commissionato il furto di alcuni quadri di Bellini e Vivarini dalla Chiesa di SS Giovanni e Paolo. Entrai dall’ingresso principale e mi chiusi in una cassapanca: per poco non fui scoperto da una suora! Attesi la mezzanotte e aprii la porta ai miei compagni; staccammo le tavole e le avvolgemmo nelle coperte. Avevo in mano un albo di Diabolik che parlava di ‘un furto da 400 milioni’, ma il nostro bottino era stimato ben 6 miliardi: avevamo superato il nostro mito dei fumetti! Il furto fece troppo clamore e l’inglese non ne volle più sapere, ma noi ci eravamo esposti: gli domandammo comunque 100 milioni. In più, ricattammo la Soprintendenza per ulteriori 100 milioni e restituimmo i quadri.”

polittico rubato venezia san giovanni e paolo up box
Il Polittico rubato
In un periodo in cui la paga di un operaio ammontava a 300 mila lire, disporre di 40 milioni a testa, a 17 anni, era qualcosa di inimmaginabile.
“Li ricordo enormi, tutti arrotolati; ci salì un’emozione incontrollabile, iniziammo a spenderli nelle boutique di lusso: Elite, Migliaccio, al Duca D’Aosta. All’epoca si usavano Yves Saint-Laurent, Fendi, Burberrys: volevamo essere come i criminali dei fumetti e dei rotocalchi”.

L’ex malvivente, però, non tenne tutto per sé: una parte del bottino la diede alla famiglia di Manuela, la fidanzata che abitava al Cep di Campalto, alla quale fornì un intero guardaroba per i fratellini.

“Ma la gioia durò poco – continua Manca – io e Fabio eravamo a Bassano, al ristorante, quando fummo fermati da tre uomini della squadra mobile di Venezia: ci portarono al tribunale di Rialto e mi chiesero la provenienza di quei soldi: io risposi “sono di mamma”. Ricevetti uno schiaffo: attraverso una luce ultravioletta, sulle banconote comparvero ben tre firme. La Soprintendenza ci aveva dato soldi segnati, ma chi aveva messo in giro i nostri nomi, per spavalderia, fu uno che aveva partecipato al furto”.

Il gemello, estraneo ai fatti, venne rilasciato, ma il “Doge” fu condotto nel carcere minorile di Treviso; da lì fu trasferito in un istituto alle Zattere, ma riuscì a fuggire e venne riaffidato alle cure materne. Dopo qualche mese, però, giunsero nuovi guai che lo portarono al penitenziario vero, quello dei maggiorenni.

A Santa Maria Maggiore conobbe Silvano “Kociss” Maistrello, di cinque anni più grande di lui, e già noto a Venezia per le sue “imprese” criminali sempre seguite da rocambolesche fughe. “Quando uscimmo ci demmo appuntamento per svaligiare le pelliccerie di tutta Italia. Diventammo amici: frequentavamo i locali più alla moda, e insieme al nostro amico Bobo avevamo un tavolo sempre prenotato al W5 di Lista di Spagna. E lì c’era un ragazzo dalla statura minuta, che lavorava alle bancarelle e ci osservava con distacco: studiava all’università, veniva da un mondo completamente diverso, ma sapeva bene chi eravamo; si trattava del futuro Ministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta.”

A vent’anni Giampaolo Manca era già padre, con l’amata Manuela che gli è sempre rimasta accanto. “Arrestarono Bobo e Silvano per una rapina alle Zattere a cui avrei dovuto partecipare anch’io. Avevo capito i rischi di un tale stile di vita, non volevo più aver a che fare con la giustizia. Decisi di mettermi in riga: iniziai a lavorare per una fabbrica di vetro come “battitore” di Piazza, fermando i turisti per proporre il consueto tour a Murano, ma arrivò la doccia fredda: sarei dovuto andare a Battipaglia, in sorveglianza speciale. Da lì mi salì la rabbia, e il mio senso di ribellione riaffiorò ancora più forte: capii che dopo quello che avevo fatto non avrei potuto tornare indietro, non avrei più potuto vivere tranquillo. Da lì scappai, mi ricongiunsi con i miei compari di Marghera e ci rimettemmo a svaligiare gioiellerie. Ma il mio più grande pensiero rimaneva di congiungermi con la mia famiglia, e da latitante risultava complicato. Così, diedi appuntamento a Manuela a Parigi, sotto la torre Eiffel, ma alla frontiera di Ventimiglia i miei documenti falsi non convinsero un agente che era stato di servizio a Jesolo che mi riconobbe”.

“Nel 1977 tornai a Venezia, sempre in sorveglianza speciale, ma l’anno successivo appresi da Fabio che Silvano Maiestrello, il Kociss, era stato ucciso da un agente in Campo SS Giovanni e Paolo, mentre fuggiva in barca dopo una rapina. Fu la goccia che fece traboccare il vaso: era morto un fratello, la cui unica colpa era quella di esser nato povero, in Via Garibaldi, con una madre che non sapeva come sfamarlo. Colpito alle spalle, per giunta ammanettato da morto”.

“Il funerale fu gremitissimo: il corteo passò per Via Garibaldi, dove ogni negozio abbassò le serrande in segno di rispetto. Questo per dimostrare quanto Silvano fosse amato e supportato dalla sua gente, in una Venezia divisa in due tra ‘i borghesi’ e ‘i poveri’. E il fatto che la polizia avesse sparato fu per noi il punto di non ritorno; ormai non era più uno scherzo: o noi o loro”.

Nel 2018 alcuni quotidiani hanno riportato che “Giampaolo Manca godeva a sparare ai poliziotti”, ma il “Doge” ribatte stizzito: “Incontrai un giornalista, e ribadii il concetto che se non avessimo sparato noi l’avrebbe fatto la polizia, ma la mia frase fu storpiata in un’ottica a dir poco acchiappaclick. In quel momento ero ancora in sorveglianza speciale: avrei mai potuto pronunciare quella frase senza subire ripercussioni? Senza contare le tante minacce di morte che ho ricevuto sui social per qualcosa che non ho né detto né pensato.”

Da qui in poi, la strada criminale di Manca sarà in ascesa: le frequentazioni in Riviera lo avvicineranno al gruppo di Felice Maniero, col quale avvierà una proficua collaborazione.

Le rapine alle banche, i prestiti al Casinò, l’omicidio dei Fratelli Rizzi: trent’anni di reati, di arresti, di fiato sospeso. Ma qual è il peggior rimorso di Giampaolo Manca? “Aver diffuso l’eroina. All’epoca era una cosa di nicchia: la utilizzavano solo gli hippy, che la ordinavano dalla Thailandia per consumo personale. Noi no, l’abbiamo importata per metterla in vendita, per farci i soldi. Si prospettava un guadagno facile, arrivavo a mettermi in tasca fino a 700 milioni al mese. Ma sono stato un infame: per la mia ingordigia ho rovinato tante famiglie: io stesso ho perso due fratelli di mia moglie per colpa della droga. E quando Maniero parla di legalizzare le droghe leggere, io rispondo che chiunque è finito con l’eroina ha iniziato col primo sballo: quello del fumo e dell’erba”.

E com’è stato il carcere? “Ormai mi ero abituato. Uscivo in cortile, camminavo, mi stancavo e mi mettevo a letto. Ma di essere stato un padre assente, quello non me lo perdonerò mai. Ho messo al mondo una creatura, Armando, che non ho potuto vedere crescere: vivevo esclusivamente per l’ora di visite. Non c’è prospettiva di guadagno che sopperisca alla lontananza dalla propria famiglia.”

E nei suoi lunghi periodi di detenzione, Giampaolo Manca racconta di aver ritrovato la fede: “Nel 1994, quand’ero nel carcere speciale di Voghera, mi giunse la notizia che mio padre stesse morendo. Non potevo permettermi di non salutarlo, io che nella mia vita lo avevo solo deluso. Ottenni un permesso speciale, con la scorta, per andare a Pordenone dov’era ricoverato, ma qualcuno mi disse che “ormai non era più cosciente”. Mi salì il rimorso per tutto quello che avevo fatto, per come avevo sempre vissuto: decisi di mettermi a pregare, e quando arrivai, con somma sorpresa, lo trovai sveglio! Nel 2000 toccò al mio gemello Fabio, al quale fu diagnosticato un male incurabile: pregai, e guarì anche lui. Fu allora che capii di aver sempre sbagliato tutto: se avessi agito rettamente, tante cose sarebbero state diverse”.

E dalle lunghe lettere alla moglie nelle quali ripercorreva i suoi sbagli, Giampaolo Manca ha tratto lo spunto permettere nero su bianco i suoi 66 anni realizzando, in carcere, ben quattro libri “Ho rivissuto tutte le mie esperienze con il senno di poi – racconta il “Doge” – e più scrivevo e più stavo male. Ma è stato terapeutico, ora mi sento rinato, e sono pronto ad affrontare la mia nuova vita, quella in cui finalmente faccio del bene”.

Il primo lavoro, che racconta la sua storia fino all’arresto del 1992, si intitola “All’inferno e ritorno” ed è già in vendita in tutti i maggiori store. Il secondo “Le mie carceri speciali” è già sulla rampa di lancio e sarà edito proprio da suo figlio Armando.

“Il male attira – ammette Manca – ma le mie opere non vogliono esserne un’esaltazione. Anzi, sono rivolte soprattutto ai giovani, affinché sappiano che futuro li aspetta se decidessero di seguire le mie orme. Per fortuna i tempi sono cambiati: non ci sono più ‘i maestri’ del crimine, quelli che all’epoca insegnarono a me. Ma la droga esiste ancora: ragazzi, pensate che coi proventi dello spaccio voi vi comprate Dolce & Gabbana, ma nello stesso momento ci sono i vostri clienti, vostri coetanei, ai quali avete rovinato la vita. Senza contare che voi credete di farla franca, ma la polizia vi guarda, vi segue, tiene d’occhio anche per tre, cinque anni, raccogliendo tutte quelle prove che poi serviranno per schiacciarvi. E una volta entrati nel ‘giro’ non avrete più finito di pagare”.

“Se lo dicono i genitori, i giovani non ascoltano, ma se lo racconto io, che qualcosa ne so, mi danno retta”. E presto le vicissitudini del “Doge” diverranno un film, nel quale si vocifera la presenza di star internazionali, ma su cui sia lui che la famiglia mantengono il massimo riserbo, almeno fino al momento dell’annuncio.

E la nuova vita di Giampaolo Manca non si ferma qui: i proventi di tutte le sue opere saranno destinati alla costruzione di New Eden, una struttura di 50.000 metri quadri che sorgerà in Via Triestina e che accoglierà le ragazze madri, i bimbi da situazioni ‘difficili’ e quelli affetti da autismo.
“Per molti l’unica colpa è quella di essere nati poveri – conclude l’ex malvivente – ma io voglio dare loro una mano: forniremo un alloggio e assistenza gratuita, colmando quel vuoto che purtroppo viene lasciato dalle istituzioni. E ora che ho riabbracciato la mia famiglia, finalmente nella mia vita potrò fare del bene anch’io”.

Nino Baldan

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