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Everything everywhere all at once: sette Oscar ma il film è un’occasione tempista

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C’è da andare coi piedi di piombo nel recensire un film come questo “Everything everywhere all at once” poiché, anche forte del trionfo alla notte degli Oscar 2023, gli spettatori si sono scissi in due tronconi. Quelli del “sì” e quelli del “no”.

Due ossi duri, specie gli entusiasti. Ma io piedi di piombo non ne ho; lasciatemi dire che questa divisione ha molto di ideologico. E che una tantum è fondata, a discapito del cinema di per sé stesso. Riflesso dei tempi? Molto probabilmente sì., dato che il film è ideologico.

“Everything everywhere all at once” (che non ridurrò ad acronimo nel corso di questa mia recensione) si è piazzato trionfatore di ben sette oscar. Una messe di premi che ha visto come grandi sconfitti titoli come “The Fablemans” di Spielberg. Quest’ultimo racconto autobiografico sotto mentite spoglie del regista. Ultimo gigante della Hollywood che fu che cede il passo alla nuova Hollywood? Può essere; ma se così fosse cosa ci aspetta? Mi contraddico, no non sarà così.

La nuova Hollywood sta trovando e troverà varie e multiformi forme di espressione e di linguaggi e non sarà solo un caleidoscopio di multiversi stordenti e autoassolutori. Semmai sarà un problema della A24, compagnia che ha distribuito diversi film di tendenza tra cui “The whale”.“Everything everywhere all at once” è “solo” una specie di film di fantascienza. Molto ideologico, purtroppo, nella forma come nei contenuti. Sento già fischiare le orecchie e la parola “boomer” che sta raggiungendo il padiglione auricolare. Ma no, credo di essere abbastanza presente nel presente per poter esprimere con diritto tutto il mio sconforto derivato dalla visione di questo astuto pastiche ipercinetico, compulsivamente citazionista, astutamente schierato su una visione woke da bignami del terzo millennio. Un condensato di posizioni assolutiste travestite da tolleranza a uso e consumo (tramite microondatura) di una presunta fascia di spettatori millennial oppure attempati radical chic, che forse non sono così babbei come si vuol credere.

In sintesi, la trama del film narra di Ewelyn, che gestisce una lavanderia a gettoni, col candido marito Waymond. Sono due immigrati cinesi e non sono a posto con le tasse. Hanno una figlia, Joy, che sta con una ragazza, Becky. Oltre alle tasse c’è pure il nonno di Evelyn, Gong Gong complesso da gestire quasi quanto la lavanderia, è appena arrivato dalla Cina e ora sta con loro. Improvvisamente Waymond, in un viaggio in ascensore per raggiungere l’ufficio dell’addetta alle tasse (jamie Lee Curtis), immette due auricolari a Evelyn, cambia tono di voce, le scrive una serie di informazioni su un foglio e così fatto, la catapulta nella dimensione del multiverso, dove dovrà sconfiggere la terribile Jobu Tupaki (che altri non è che….).

Il film è diviso in tre parti: “Everything” dove fondamentalmente la protagonista scopre questi altri universi e alcuni nemici in alcuni di essi), “Everywhere” (dove abbiamo lo svolgimento della sfida tra lei e Jobi) e “All at once” dove tutto alla fine si chiude con un finale, non solo nell’universo di Evelyn ma anche in altri. Ok, sto ben più che riassumendo; sto proprio omettendo intere trance di film. Perché in questo calderone c’è davvero tutto ma tutto proprio. Tra citazioni di film (da 2001 a “In the mood for love” o “Ratatouille”), flash di tante possibili altre vite dei protagonisti (addirittura Evelyn che diventa…Michelle Yeoh stessa, durante una premiere cinematografica), dita a wurstel, sassi pucciosi innamorati e chi più ne ha ne metta.

“Everything everywhere all at once” sembra la materializzazione cinematografica di certe dimensioni verbose, nozionistiche, compulsivamente catalogatrici di molte persone del nostro tempo. Il multiverso visto quasi come speranza di avere una vita migliore da qualche parte; il pout pourri di linguaggi alti-medi-bassi, la frenesia di manga e anime etc. Il sospetto è che tutto questo sia stato costruito premeditatamente per stupire una certa platea che vuole veder confermata da un blockbuster solo all’apparenza bizzarro e indie, una specie di ideologia non certo dominante ma sicuramente meno tollerante e relativista di come si voglia far credere.

E il colpo di grazia avviene nello scioglimento di tutti i nodi; la famiglia resta unita, dobbiamo imparare a volerci tutti più bene e a rispettarci, di tutte le vite possibili cerchiamo di amare quella a cui siamo stati destinati. Un vero e proprio pamphlet buonista, alla faccia della presunta carica trasgressiva che il film vorrebbe millantare.

Per il resto, cosa vogliamo dire? Delle qualità formali? Ok, gli interpreti sono eccellenti (forse la Curtis un po’ troppo gigiona ma è il personaggio a chiederlo). La Yeoh neanche a discuterne e così per Ke Hui Kan nel ruolo di Waymond, che nella notte dell’academy ha abbracciato Harrison Ford: era lui lo Short Round di Indiana Jones e il tempio maledetto). Montaggio? Musiche? Che possiamo dire? Tutto ok, tutto impeccabile. Ma a mio parere alla fin fine il film è un’occasione tempista di rara irritazione.

EVERYTHING, EVERYWHERE ALL AT ONCE
(2022, U.S.A./Cina)
Regia: Daniel Kwan, Daniel Scheinert
Con: Michelle Yeoh, Stephanie Hsu, Ke Hui Quan, Jamie Lee Curtis

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