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Elvis Presley has left the cinema building: velocissimo excursus su Elvis Presley e il cinema

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Mentre è ancora in sala il nuovo film di Baz Luhrmann, dedicato al cosiddetto re del rock’n’roll può essere interessante riepilogare il rapporto tra Elvis Presley e il cinema.

Presley, a mio parere, più che interessare come musicista ha una valenza di stampo sociologico e antropologico. Senza nulla togliere a meriti e debiti artistici, ovviamente. In questo senso, e non per la sua interpretazione del rock’n’roll, l’artista offre infinite suggestioni per riflettere non solo sul fenomeno del divismo ma anche per capire gli Stati Uniti d’America.

Nato come devoto riciclatore di stilemi di origine afroamericana, Elvis è assurto a fenomeno di massa creando una vera e propria psicosi ma anche espressione di una certa libertà da dettami moralistici grazie alla sua presenza sessualizzata (nonostante Elvis odiasse il nomignolo “the pelvis”, fu proprio la mossa del bacino a incantare le ragazze che assistevano adoranti ai suoi concerti).

Elvis è stato una bomba atomica che esplose in un paese ancora oggi bigotto; allo stesso tempo lo star system non ci penserà due volte a fossilizzare questa gallina dalle uova d’oro sino a renderlo quasi un eroe reazionario, fino a una ridicola maschera con lustrini e pajettes nashvilliane tenuta in piedi con droghe eccitanti e calmanti.

Bohemian Rhapsody,
film con afflato da tribute band

Elvis è morto grazie agli squali della musica pop, a partire dal primo manager, Tom Parker, che era un organizzatore di spettacoli da fiera tra cui, fatalità, incontri di lotta tra uomo e squalo. E inevitabilmente il cinema si impadronirà di questo fenomeno commerciale; come attore Presley era men che mediocre ma il suo status faceva tutto il lavoro. Trame congeniate per celebrarne il fascino erotico e le capacità vocali ma anche pellicole che lo vedono solo come attore.
A dir la verità una sola: “Un uomo chiamato Charro”, 1969, diretto dal mestierante Charles Marquis Warren. Western con sentori di spaghetti western dove uno spaesatissimo Presley con barba (sic) si aggira in un set di confine tra Arizona e Messico in una parte pensata per Clint Eastwood che saggiamente rifiutò.

E pensare che the King esordì proprio in un western, a fianco di Richard Egan, “Fratelli rivali” (1956 regia Robert Webb), il cui titolo originale “Love me tender” fa capire che all’interno del film lo sentiremo cantare, soprattutto l’omonima ballad che è uno dei suoi brani immortali.

Ma è il terzo titolo della sua carriera a decretarne fama eterna nel mondo della pellicola. Quel “Il delinquente del rock’n’roll” (Jailhouse rock 1957, Richard Thorpe) ricordato ancora oggi per la scena dello spettacolo tv in cui Elvis canta il leggendario “Jailhouse rcock” in una scenografia carceraria.

Elvis Presley nel celeberrimo “Jailhouse Rock”

Uno dei momenti topici del musicista ma anche uno dei punti più alti del connubio tra i vari elementi del decennio dei ’50. La delinquenza giovanile, lo spirito libertario del rock’n’roll ma anche la redenzione.

Certo siamo ben lontani dal ritratto del ribelle senza causa fornito da James Dean nel capolavoro di Nicholas Ray “Gioventù bruciata” del 1955. Ma per i fan di the King ciò basta e avanza. E fatalità vuole che nel 1958 Presley giri un film con un signor regista proprio in sostituzione di James Dean per un’altra storia di melodramma neorealistico: “La via del male” (“King Creole”, 1958, Michael Curtiz).
Al suo fianco troviamo Carolyn Jones, cioè la splendia Morticia della Famiglia Addams.

Un altro grande regista per un film western con Presley. Don Siegel, che lo dirigerà in “Stella di fuoco” (“Flaming Star” 1968) assieme a Barbara Eden e il mitico L. Q. Jones.

A conti fatti forse il film più solido della carriera del cantante, credibile come mai più nella parte del meticcio Pacer. La maggior parte dei film che verranno sono puri espedienti per far cantare Elvis o fargli fare lo smargiasso rubacuori, con una recitazione catatonica se non si tratta di dover cantare, cioè l’artista nel suo elemento.

Elvis Presley cowboy
Elvis Presley cowboy

Fondamentalmente anche il rock’n’roll appartiene al passato di Presley che diventerà un interprete di hits pop tout court, pur concedendo un flavour rock e country quando non addirittura gospel alle sue interpretazioni. Curioso il titolo “Il monte di Venere” (“Kissin cousins”)del 1964, diretto da Gene Nelson che vede Elvis in una doppia parte e dove il primo personaggio convince il secondo a concedere un terreno all’aereonautica militare. Il tutto in un’atmosfera bizzarra come un fumetto di “Li’l Abner”.

Senza approfondire troppo, tra i tanti film in cui Presley fa il bellimbusto e canta, ricorderei come il più piacevole “W Las Vegas”, di George Sidney non solo per la title track, uno dei brani più entusiasmanti del Presley “maturo” ma anche per il racconto vivace e scatenato, dove la fa da padrona una conturbante Ann-Margret, la cui apparizione lascia senza fiato per la carica di sensualità. Si canta molto nel film, come sempre ma sono canzoni riuscite e ben interpretate.

Ma Elvis Aaron Presley non è stato solo interprete di film; come è logico che sia son stati fatti film, documentari e fiction su questo imprescindibile campione di americanità, idolo che accoglie in sé tutti i colori del divismo concepito dagli Stati Uniti, compreso l’usare e gettar via esseri umani.

“Viva las vegas”

Ed è John Carpenter ad aprire le danze sulle fiction relative a Elvis, con il suo biopic “Elvis il re del rock” (“Elvis, 1979), uscito due anni dopo la morte del musicista di Tupelo. A impersonarlo troviamo un valido Kurt Russell che nel 1963 era apparso in un vero film con Presley, “Bionde, rosse, brune” (“It Happened at the World’s Fair”, Norman Taurog).

A seguire il documentario “This is Elvis” del 1981(regia: Malcom Leo-Andrew Solt), docufiction in cui alle immagini del vero Elvis troviamo attori che lo impersonano in differenti periodi della sua vita.

Arriviamo al 2016 con l’uscita di Elvis e Nixon (Elvis&Nixon) diretto da Liza Johnson. Presley è impersonato (e usare il termine “impersonato” per Elvis è quasi un obbligo, dato che è il musicista con più impersonatori al mondo) dall’ottimo Michael Shannon mentre Nixon è interpretato dal grande Kevin Spacey.

Il film della Johnson si sofferma su un episodio preciso della vita del Re; ovverosia la sua proposta di diventare agente della narcotici per conto della CIA. Uno dei vari episodi sconcertanti per Presley ma saldamente inseribile in quello spirito patriottico tutto americano. Il trasgressore degli anni 50 è ormai il fiero paladino della peggior reazione.

Elvis e Nixon
Elvis e Nixon

Però il titolo più curioso e forse più interessante resta “Bubba-Ho Tep/Il re è qui” (“Bubba Ho Tep, 2002, Don Coscarelli). Tratto da un racconto di Joe L. Lansdale è un thriller horror in cui Presley è interpretato dal sempre mitico Bruce Campbell, attore feticcio di Sam Raimi.

Campbell era sparito dalle scene dopo “L’armata delle tenebre” e con questo mediometraggio risorge dall’oblio cinematografico. Un film che offre una lettura dell’Elvis vecchio immerso in un universo mostruoso.

Ricercare Elvis nel cinema, sia come artista che come musa ispiratrice o apparizione all’interno di film non relativi al musicista stesso, è un’impresa che richiederebbe ben più di un articolo. Il mio vuol essere più uno stimolo a ricercare Elvis nel mondo della celluloide per comprenderne l’influenza culturale.

Se posso dire la mia, uno dei film dove più aleggia lo spirito di Elvis pur non prevedendo alcuna apparizione di “The King” resta “Cuore selvaggio” di David Lynch, dove il protagonista Sailor (interpretato da Nicholas Cage) è un fan di Elvis e attraverso le sue gesta di innocenza ma anche di follia possiamo saggiare un bel po’ del tono presleyano depositato sul Grande Paese.
Nel bene, nel male.

''Cuore Selvaggio''
”Cuore Selvaggio”

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