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Ma cos’è Lungomare Marconi, per noi la spiaggia era San Nicoeto

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in tal caso bevevo la cedrata.

Si partiva di casa strapieni di borse e si arrivava a San Nicoletto. Quasi distrutti. San Nicoletto, o meglio San Nicolo’, e’ al Lido di Venezia, dove fanno la mostra del cinema tanto per capirci. Le spiaggie di noi veneziani.
Belle, anzi meravigliose, purtroppo poco conosciute, meriterebbero di essere piu’ frequentate e per la loro bellezza meriterebbero notorieta’.

Zona A, Ospedale al Mare, Marina, Esercito, San Nicolo’, spiaggia libera. Erano le spiaggie che si trovavano a sinistra una volta percorso il Gran viale, un grande viale alberato inondato di profumi di frittura mista confusi dagli odori di pizza del famoso Parco delle rose.
Superata la zona A,iniziava la zona ospedaliera ed era immancabile quando si passava di lì, sentire un odore di brodo di carne, minestra in brodo o pure’.
Un odore forte, puntuale.

Un tempo andavamo proprio a San Nicolo’ ( detta da noi veneziani San Nicoletto), in quella fila laterale verticale che divideva la zona libera da quella a pagamento.
Gli uomini adulti andavano prima, cioe’ i padri e i fratelli piu’ grandi la mattina andavano avanti, mentre i fratellini piu’ piccoli, le sorelline arrivavano dopo con le Mamme. Andavano sulle nove del mattino perche’ a loro spettava il compito di tirar giu’ le tende e mettere fuori sdrai ed asciugamani.

Insomma, facevano un po’ da bagnini e approfittavano di quel paio di ore di liberta’ per stare in santa pace. Qualche volta andavano a “peoci” sulla diga del faro e così quando arrivava la Mamma col fratello piu’ piccolo si trovavano cozze e vongole sdraiate in un secchio di ferro colmo di acqua salata.

Era uno dei momenti piu’ belli dell’estate e guardando nel secchio gia’ si pregustava il sapore straordinario dei peoci saltati con aglio e prezzemolo.
Chi rimaneva con la Mamma aveva un altro compito, quello di aiutarla a portare le vivande.

In quegli anni non si spendeva per ristoranti, la maggior parte dei veneziani e non solo dei veneziani si portava quasi tutto da casa.
Non si usciva di casa prima delle undici, prima cioe’ che le nostre Mamme non avessero preparato tutto il necessario, quindi ci si incamminava proprio sotto il sole cocente ( soto ea candea del sol ).

Si arrivava con due o tre pentole piene di cibo e lì le nostre Mamme cominciavano ad apparecchiare la tavola dopo aver indossato il costume da bagno con sopra un pareo.
Le tovaglie erano a fiori gialli o a piccoli quadratini rossi e di plastica, come nelle vecchie trattorie.
I piatti erano rigorosamente di plastica come forchette, bicchieri e cucchiai, ma non di quelli da buttar via ( che una volta provati si scopriva che venivan facilmente portati via dal vento).
Erano piatti di plastica belli robusti e lavabili.
I bicchieri ingannavano. Avevano sempre colori diversi, come l’arcobaleno e visti da lontano potevano sembrare soffiati da un Mastro vetraio di Murano.

Pastasciutta col ragu’, bigoi in salsa, spaghetti col nero di seppia. Costicine, cotolette, patate, peperonata, insalata di riso, mortadella, prosciutto, salame.
Ve ne era per ogni gusto e nessuno, nemmeno nel circordario, sarebbe mai rimasto deluso.

Ci si impiegava un oretta a mangiare, perche’ poi si doveva sparecchiare e mettere i piatti e i bicchieri in un lavamani di plastica che le nostre Mamme ( impugnati detersivo e spugnetta) prendevano sotto ad un braccio prima di infilarsi gli zoccoli e recarsi ai lavandini dove si svolgeva quotidianamente il bucato.
Una coda di Mamme e lunghe scie di sapone e bollicine.

Loro lavavano a turno e alcuni figlioli sciacquavano diligentemente piatti e bicchieri. Dopo averli scolati alla meno peggio venivano riposti capovolti nei lavamani, pronti per essere riposti nella credenza in capanna.
Non mancavano i piccoli vandali, con pistole e acqua fredda facevano arrabbiare le Mamme a furia di gettar acqua gelata addosso.

La capanna era di legno, meno moderna di quelle di oggi. Anzi, iniziamente sembrava una soffitta diroccata, ma col passare dei giorni, tra salvagenti, corde attaccate per far asciugare i costumi, ciabatte, abbronzanti di ogni tipo, acquistava colore ed allegria.

Alle due e trenta finito di pranzare, ognuno prendeva posto sulla sua sua sdraio e, spesso cullati dal vento come su di un’amaca ci si addormentava per un oretta.
E’ un momento che ricordo come fosse adesso.
Gli occhi chiusi, quella brezza che mi accarezzava e quei suoni diversi che si sentivano solo sulla spiaggia.

Voci in lontananza,voci felici, il tichettio di due racchette, la canzone dell’estate che usciva da una radiolina, il rumore del giornale di mio padre che girava pagina.
Tutto avvolto nell’armonia del suono magico delle onde che scandivano il tempo, minacciose e rassicuranti allo stesso momento.

In acqua si poteva andare solo al risveglio, verso le quattro. Era tassativo e per nessun motivo al mondo uno di noi sarebbe potuto andarvi prima.
Si rubavano spesso cinque o dieci minuti, dicendo che tanto ormai il pranzo era stato digerito.

Indossavo le pinne e la maschera io, ancor prima di entrare nell’acqua. In una mano un sacchetto di plastica e nell’alltra un ferro di ombrello al cui apice era stato fatto un uncino. Serviva a prendere le cappe lunghe ed una volta presa dimestichezza, diventai un maestro.

Quasi un ora dopo,le dita raggrinzite e disidratate facevamo arrabbiare i nostri genitori che ci volevano fuori dall’acqua. Così col sacchetto mezzo pieno o mezzo vuoto di

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