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Antigone, il virus e l’Odioso Io di Carlo Emilio Gadda

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Antigone, il virus e l’Odioso Io di Carlo Emilio Gadda. Di Andreina Corso.

Antigone, il virus e l’Odioso Io di Carlo Emilio Gadda

Sei stata tu, Antigone a spingermi, a farmi uscire da un’insistente apatia. Non volevo scrivere niente su questo virus. Mi sembrava e mi sembra un gesto presuntuoso, scriverne, così come tuttavia volevo e voglio sentire la responsabilità di impegnarmi, di non perdermi nel fatalismo, di non sostituire un placebo alla consapevolezza.

Ho letto tanti libri in queste giornate: mi hanno fatto compagnia, quelli che parlano di te, soprattutto, le parole nella mente si sono agitate e poi riposate e poi arrabbiate e poi indignate. E poi la calma che delega alla parola la possibilità di dare senso alle cose del mondo e il compito di ritrovare le misure di un’armonia cosmica, pur sapendo che è una meta impossibile.

E poi ancora mi sono sentita incautamente costretta a chiedermi, ma chi sono, chi siamo?, vergognandomi un po’ per queste domande vaghe e inconsistenti in queste giornate, mentre tante persone si spendono, si sacrificano, si ammalano, muoiono; altre guariscono, altre ancora e soprattutto, non si risparmiano, si spezzano il corpo, il cuore e la mente per curare chi è ammalato.

Quelle che ti assomigliano, in fondo, cara Antigone e non saprò mai se lo sanno che sei tu che sei riuscita a catturare il tempo e a conservarlo nella sua delirante eternità, che sei tu e ancora tu a dar loro linfa e coscienza.

E poi ci sono anche quelli che si ritirano in convegni, conferenze, per cercare di afferrare l’inafferrabile, annunciando vaccini e cure, per parlarci di numeri e previsioni sulla nostra e altrui vita.

E gli scienziati che ci informano, i programmi televisivi che mescolano diagnosi e previsioni, immagini di provette, mascherine e guanti di gomma. Una tempesta di suoni, di parole a dirci che la nostra minima presenza nel mondo ci autorizza a sentirci unici, i soli ad aver diritto alla salvezza con i familiari, gli amici che ci sono cari. Non possiamo sfuggire a Carlo Emilio Gadda e all’odioso IO ne La cognizione del dolore.

Scrivo da Mestre, da Viale San Marco, che ormai da settimane è abitato dalla primavera. Alberi verdi e rigogliosi. Alberi in fiore. Un profumo di foglie contente di nascere si allunga sui raggi del sole. Talvolta fa freddo, un vento freddo che fa bene e che accarezza la pelle del viso semicoperto dalla mascherina.

A pochi chilometri, la mia Venezia, l’acqua dei canali, i ponti, i campi che, sappiamo più vuoti di passi e di voci. Sì, è il vuoto, il vento, ad accompagnare queste righe in un pensiero d’acqua che mi porta lontano.

Così hai detto, Antigone: ”Da quando mio padre Edipo è morto, i miei occhi e i miei pensieri sono orientati verso il mare ed è vicino al mare che mi rifugio sempre. All’ombra di una roccia ascolto il rumore del porto e degli uomini e il grido degli uccelli marini”. Un giorno lontano, tuo padre Edipo si è girato di scatto verso di te e ti ha detto. “Tu non sei mai stata sul mare, Antigone, eppure sei un vero marinaio. Senza vele, senza timone, sono anni che navighi, senza rovesciarti in mezzo alle mie vertigini e alla mia cecità”.

Uno spicchio di cecità nascosta, la mia, si svela quando, dalla mia finestra vedo una signora anziana affacciata al balcone che osserva due bambini che giocano nel giardino condominiale. Ne segue interessata i movimenti e i gesti quando sono raggiunti dal padre che li invita allegramente ad aiutarlo a fare il giardiniere. I bambini esultano, tagliano i rami secchi, rimuovono la terra, piantano arbusti, dissetano il prato con due pompe verdi di plastica. Si vede che si divertono: esistono. Il loro cane si esibisce in corse spericolate e penso che sia la prima volta che li vedo, nonostante abiti qui da più di tre anni.

Mi stupisce quell’allegria così manifesta allo scopo di far divertire i bambini, far capire loro che le azioni semplici sono interessanti, che il lavoro diverte più di un tablet, che le piccole mani possono accordarsi con i bisogni della natura, aiutarla e curarla. Non conosco, me ne rendo conto, nemmeno la signora che si è affacciata e sorride coinvolta a quella famiglia. E al cane.

Il viale è quasi deserto, i pochi passanti camminano in fretta, guardinghi e concentrati sui loro pensieri, attenti a spostarsi non appena sbuca una figura umana che è meglio evitare. Bisogna pur capirlo quell’odioso Io detestato da Carlo Emilio Gadda.

Venezia è a due passi, eppur lontana. La luce d’acqua mi attira, ma la corrente non mi raggiunge. Ritorno al libro che parla di te, Antigone e del tuo disperato tentativo di riconciliare i tuoi fratelli Eteocle e Polinice che si contengono il trono. E della tua volontà di dar degna sepoltura a uno di loro, lo sconfitto. Mi trascini a Tebe, città regnata da tuo padre Edipo.

È la disperazione a rendere cieco e mendicante Edipo, è il dolore a farlo musico e poeta. Tu lo hai seguito nel suo cammino buio e acceso dopo il suicidio di Giocasta, che gli era moglie e madre. E ancor più dopo che l’indovino Teresio l’accusa rivelandogli l’intollerabile verità.

La sciagura che si è abbattuta su Tebe, sul risentimento dei fratelli, non ti ha impedito, Antigone, di aspirare alla giustizia, al bene. Ancor oggi che temiamo la tempesta della malattia e della morte, tu, Antigone ci dici che i miti greci sono ben presenti nella nostra coscienza, si annidano in essa come archetipi immortalati nelle sculture nate dalle tue mani che hanno plasmato il legno con ferite di luce rivolte alla forza dell’odio che si arrende e arretra alla loro vista. Una pietra.

Tuo padre Edipo a Colono si è seduto sopra una grande pietra in una stradina di Colono e gli è sembrato che solo quella pietra fosse il luogo della sua vita. Il posto dove stare. Anche noi siamo seduti su una pietra, solo che non lo sappiamo.

Ora la vita non è più completamente la vita, ma una sorta di attesa, di cielo grigio nascosto da una giornata di sole, è lì, con la sua ampia schiena sempre in agguato a darci memoria della nostra fragilità. Si accende il messaggio della tragedia, è già qui e si mostra, e noi sempre più piccoli e pavidi speriamo che non ci tocchi. L’IO tanto disprezzato da Gadda ritorna un po’ conciato, provato dalla paura. Forse lo accetterebbe lo scrittore milanese, ora che questo ‘io’ si presenta vestito di stracci e di enigmi, senza scarpe, simile a te, Antigone e al tuo mendicare. Quell’io spogliato, minuscolo, abbattuto senza odio nelle sue pretese, rimpicciolito nello scoramento, affogato persino nella preghiera, è a cuccia.

I bambini miei dirimpettai giocano ora con un pallone, il padre e il cane. Folti glicini circondano i cancelli, una luce viola si diffonde nel cielo. La signora affacciata al balcone li osserva, con cordiale puntiglio. Io ripenso alla mia città, al verde scuro delle sue acque. Vorrei salire sul tram che va a Venezia, ma come faccio, Antigone?

Ci vuole un valido motivo scritto, certificato per potersi muovere. E non potendo scrivere che ero sul tram per vedere e respirare il colore dell’acqua della laguna e dei canali, fermo i miei occhi sulla strada. Non posso violare le regole, anche se una legge non scritta mi attrae: Il viale quasi vuoto mi riporta alla stradina di Colono. Ricordi Antigone? Potevi scorgere Atene.

A pochi chilometri scorgo anch’io, con la mente, la mia città sorella: Venezia mi consola con il suo solo esistere, la laguna forse incontrerà tuo padre e gli restituirà la vista. Edipo guarderà ancora lontano, dentro e oltre la tragedia, dove la veggenza troverà riposo nel sale e sarà un re mendico, un uomo che voleva fermare la peste, sì, tuo padre, Antigone, a donarci le parole della quiete.

Andreina Corso

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