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9 Maggio: La mamma celebrata. Di Andreina Corso

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Come non sfuggire al senso comune che ogni anno la Festa della mamma ha proposto, accompagnata da una pianta, da un gesto gentile rivolto al riconoscimento di una donna che è diventata madre.
Nostra madre, la mia e la tua, e adesso io e te, che dentro questa parola ha avvolto la sua vita, dedicandola ai figli, alla famiglia dentro una quotidianità che l’ha vista recarsi al lavoro (quando c’era), occuparsi della casa, seguire i bambini nei compiti e nei giochi, curare i genitori anziani, i fiori, accompagnare il cane a fare il suo giretto.
Prima della pandemia, i ritmi erano frenetici, tra mille impegni da assolvere, difficoltà da sormontare, spesso quella o quell’altra madre saltava anche quell’ora in palestra che ristabiliva il contatto con il proprio corpo, che restituiva energia, per potercela fare, e nello stesso tempo costatare il diluirsi di quei momenti di dialogo, di quando ci si parla, ci si guarda, ci si tocca, per meglio capire e affrontare le difficoltà della vita.


Pier Paolo Pasolini scrive alla madre alla quale era legato da un sentimento d’immenso affetto:
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
 Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
 Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
 Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
 E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
 Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
 Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
 Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
 Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile. . .

E rieccoci a Maggio: le giornate di quest’anno affogato dentro la paura, l’incognita del domani e la forza da inventare per proteggere e sostenere i figli hanno forgiato le condizioni della scoperta dello stare insieme, insieme per davvero.
Il tempo ritrovato, la consuetudine dell’abbraccio, l’ascolto, l’osservazione e poi l’illuminazione del piacere di una riconciliazione che non sapeva di essere in debito con i suoi passi e che ha imparato a pregustare il sapore della consolazione.
Ci ha tolto tutto, il virus, ci ha distrutti, ma ci ha dato modo di ripensare al tempo, al concetto di tempo. Le ore del giorno e della notte, le ore della memoria vissuta e quelle da vivere in un tempo dilatato. E la Storia ci aiuta a capire a scoprire la peculiarità che lega la Madre al Tempo.

Il tempo “dedicato” è stato fondamentale per due illustri pensatori. Noto e significativo come quello delle madri di Agostino o di Schopenhauer.
La prima, Monica, rimase accanto al figlio già nei momenti di maggior perdizione e confusione di Agostino, ancora ben lontano dalla speculazione filosofica e dal percorso religioso. Nel cammino formativo del giovane Agostino lei gli fu sempre accanto, facendogli da mentore, da supporto e da aiuto e divenendo poi la figura centrale per il figlio, sino a oggi riconosciuta. Le Confessioni ricordano ed elogiano la madre, ripagandola in qualche modo delle fatiche sopportate a lungo.
Secoli dopo, nella Prussia di fine settecento, il bambino che sarebbe divenuto il noto Arthur Schopenhauer attendeva di capire cosa sarebbe diventato. Fu la madre, non solo a crescere ma a educare il giovanissimo Schopenhauer raffinando la sua sensibilità ed esercitando la sua interiorità (come ricorda l’episodio della morte di un amico d’infanzia del figlio, dopo il quale la madre invitò il piccolo Arthur a pensare quanto prima alla caducità dell’esistere). Sin da adolescente, la madre di Arthur, Johanna, gli consigliò di tenere un diario, di studiare i classici e sviluppare il pensiero autonomo e la scrittura, abitudini che Schopenhauer non abbandonerà fino alla morte.


 

“Queste madri hanno trasmesso ai loro preziosi figli un’eredità ineguagliabile: quella della quotidiana vicinanza, del simbiotico scambio di valori e conoscenze, della costituzione di un’autostima e di una forza necessarie a qualsiasi pensatore. Quelle eredità rimangono oggi perlopiù sottovoce e sono spesso dimenticate, ma sono le madri a permettere ai figli di rimanere fedeli al loro essere, di poter poggiare su fondamenta solide. Le madri, volendo continuare con le metafore, hanno costituito spesso il terreno dei pensatori. Il loro essere ha permesso che i figli imparassero a contare sulle proprie forze, a perseguire i loro scopi anche in mezzo alla solitudine o alla difficoltà, a fare propria l’interiorità creatrice che nasce su una sensibilità differente dalla pura ratio o dalla semplice abilità nel fare qualcosa. (Luca Mauceri) ”.

La madre al tempo del Covid, sa che non può distrarsi o rinviare: deve confortare il marito in cassa integrazione, il figlio che è stato licenziato, il bambino che non ama la didattica a distanza. Tralasciando che anche lei, la madre l’hanno lasciata a casa: per il momento il ristorante non ha bisogno di cameriere.
Questa madre, madre nostra, madre tua, madre mia, che continua a esistere anche quando non c’è più, anche se da tempo vive altrove, magari in una casa di riposo, come non portarle un fiore nel giorno che la celebra?
Segno i confini/di mani tremanti/rivolte alle nostre dita arrese.
Ti guardo e mi sorprendo/a scoprire profili/di lieve vento marino
a lasciar traccia/sul tuo volto smagrito/di eterea dolcezza.

Eroina senza scettro, madre di pane fresco e croccante, cede il cuore al suo essere Madre.
Nonostante la minaccia del virus, non affoga, prova a navigare, a tenere salda la rotta in un mare pieno d’insidie: ce la può fare. No, non assomiglia alla Medea di Euripide che ci ha consegnato una donna che ha ucciso i suoi figli.
Ma li ha uccisi?


 

Con la scrittrice Christa Wolf non incontriamo niente di tutto questo: la sua Medea è una donna che non potrebbe mai nuocere ai propri bambini, è una vittima della superstizione e della diffidenza di una cultura che le è estranea per nascita, è una martire in fuga. Un respiro di sollievo ci coglie. Sì una madre non può uccidere i suoi figli, casomai può morire per loro. Per questo il verbo amare le è dedicato:
Amare, Mito racchiuso nella mente del Tempo, primo vagito di senso nelle mani dell’uomo. Amare, parola infinita, onda universale attraversata dalle ragioni del cuore nel suo umano viaggiare.

Amare ed essere amati, necessità primaria, latte materno confluito fra i meandri del sentire, verbo in ire concentrato fra la parola e la mente, indispensabile per esistere, percepire ed essere percepiti.
Basta esistere per essere amati? Quel che è certo è che solo attraverso l’Amore il seme diventa fiore, il fiore diventa frutto e la terra è madre, grande madre per i suoi figli. Le mani hanno voluto e potuto curare quella terra, il cielo l’ha dissetata, il sole l’ha nutrita e illuminata. L’amore è casa, luogo che accoglie chi bussa alla sua porta. Un bussare semplice: toc, toc. E la porta si spalanca. Ad aprire è una madre.

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