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Tre manifesti a Ebbing, Missouri, film che va visto dall’imprevedibilità ben strutturata

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Tre manifesti a Ebbing, Missouri, film che va visto dall'imprevedibilità ben strutturata

A Ebbing, cittadina del Missouri, Mildred (F. Mc Dormand), una donna indurita e rude, affitta tre spazi pubblicitari in una strada statale in direzione della sua abitazione. Affigge tre enormi manifesti in campo rosso con tre scritte in nero che sono tre domande rivolte allo sceriffo della cittadina, Willoughby (W. Harrelson); domande relative al caso irrisolto dell’omicidio della figlia “violentata mentre moriva” e poi bruciata. Il conflitto con lo sceriffo prende subito una piega drammatica, in quanto quest’ultimo ha un cancro in fase terminale. Lo sceriffo dichiara che le richieste di Mildred sono ingiustificate e che la polizia ha fatto tutte le ricerche possibili per trovare l’assassino della figlia, mentre quest’ultima non retrocede nella sua provocazione.

Raccontare la trama di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” significherebbe non solo spoilerare una serie di colpi di scena imprevedibili ma cercare inutilmente di entrare nelle pieghe di una storia che riguarda più l’intimità dei personaggi che la narrazione dei fatti. Narrazione che alla fine viene abbandonata al fuoricampo in scelte che non vedremo mai compiersi. E questa è la più bella invenzione di un film perlomeno imprevedibile.

Il senso ultimo della pellicola di Mc Donugh: la nostra natura intima che ci coglie di sorpresa, trasformando le nostre reazioni e i nostri sentimenti in relazione a ciò che accade nel farsi degli eventi. Nello sviluppo di una storia che presto perde il significante di partenza (i manifesti) il regista mette in gioco un pugno di personaggi, li getta in una periferia americana classicamente ottusa e violenta; li presenta con una faccia, li strapazza, li rivolta come calzini.

A visione conclusa tutti gli interrogativi del film lasciano gli spettatori stimolati e commossi. Eppure, nonostante “Tre manifesti” vada visto e apprezzato, manca un’aura di universalità che riguardi anche noi tutti, noi spettatori. Certo, il balletto di anime non lascia insensibili e il cast, formidabile, fa il massimo per lasciarci intrigati di fronte a un film dove nonostante succeda una cosa al minuto pare non succeda niente (è lo spirito della provincia, di ogni provincia del mondo).

Ma per quanto bello e sentito sia è pur sempre un dramma che segue e abbandona tracce narrative in forma canonica, privo di quel sarcasmo dei Coen che sbeffeggia e si intenerisce allo stesso tempo dei loro personaggi. Ma, ripeto, il film va visto. Perché comunque la sua imprevedibilità, la carta maggiore, è molto ben strutturata. Probabilmente il personaggio più interessante del gruppo è Dixon, interpretato da un grande Sam Rockwell; anima ferita che reagisce con sgradevole crudeltà alle dinamiche ottuse del vivere sino a che una “voce” sapiente non lo mette di fronte al vero se stesso.

“Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è un cinema “medio” che fa piacere vedere ed è dotato della grazia dell’abbandono delle piste in misura sufficiente da sorprendere gli spettatori meno incalliti. E in mancanza di prove più estreme va bene che sia così.

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
(Three billboard outside Ebbing, Missouri; 2017, U.S.A., Regno Unito)
Regia: Martin McDonagh
Con: Frances Mc Dormand, Woody Harrelson, Sam Rockwel
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Giovanni Natoli

MOVIEGOER, APPUNTI DI UNO SPETTATORE CINEMATOGRAFICO. DI GIOVANNI NATOLI

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