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Le Società delle Piante: contribuiscono al controllo del clima ma sono in pericolo

Le Società delle Piante: sono altamente organizzate e contribuiscono all’equilibrio del pianeta ma sono minacciate dal cambiamento climatico e dalle attività umane.

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Le Società delle Piante: sono altamente organizzate e contribuiscono all’equilibrio del pianeta ma sono minacciate dal cambiamento climatico e dalle attività umane. Promuovono e difendono la vita animale, contribuiscono al controllo del clima globale, ma sono in costante declino. Un problema anche per la nostra stessa sopravvivenza.

Foreste pluviali e boschi allo stato selvaggio sono società con caratteristiche che le rendono uniche tra il vivente. Contano più individui di tutti gli esseri umani. I suoi abitanti, gli alberi, hanno una aspettativa di vita media superiore alla nostra. Alcune sequoie oltrepassano il millennio di vita. La President nella Sierra Nevada in California supera i 3200 anni. Dispongono di una estesa rete di comunicazione sotterranea che ha anticipato il nostro Internet costruita dalle loro radici e dai funghi che vivono in simbiosi, le micorrize. Un sistema che è stato definito il Wood Wide Web copyright di Suzanne Simard una collaboratrice del Department of Forest and Conservation Sciences, University of British Columbia, Canada la quale da molti anni studia l’ecologia delle foreste.

Vanno collocate al top della scala gerarchica degli esseri viventi. Nei loro confronti dobbiamo avere un atteggiamento laico: non siamo noi umani al centro del mondo, ma la multiforme capacità di queste società di vivere per sé stesse e per le altre specie viventi. Meritano il nostro rispetto e l’impegno che vengano preservate. Il loro degrado in corso per i cambiamenti ambientali e l’intervento degli umani non fa che anticipare quello del pianeta.

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La vita nei germogli

Geoffrey Williams dell’US Forest Service, Department of Agriculture in Michigan pochi mesi fa ha lanciato un inusuale e accorato appello pubblico per la difesa di queste antiche società poco conosciute dal grande pubblico perché secondo la sua opinione dobbiamo con urgenza cambiare il nostro atteggiamento privato e pubblico nei loro confronti. C’è molto disinteresse e poca conoscenza del valore cruciale che hanno queste società svolgono nell’equilibrio biotico e abiotico del pianeta.

Un altro allarme proviene da un gruppo di biologi coordinati da Marina Hirota della Federal University of Santa Catalina, Brazil che da anni seguono le vicende della foresta pluviale dell’Amazzonia. Una loro recente ricerca ha ipotizzato che in pochi decenni potrebbe raggiungere il punto di non ritorno nella sua capacità di autogenerarsi come è sempre avvenuto nel corso degli ultimi milioni di anni. Un ‘warning’ come molti altri con una scarsa audience mediatica mentre stiamo assistendo ad un costante declino delle aree occupate dalle foreste del pianeta in particolare di quelle pluviali. Nei primi quattordici anni del nuovo secolo la loro superficie totale a livello globale si è ridotta del 7,2% secondo una analisi di Peter Potapov della University of Maryland, College Park.

Qualcosa però si sta muovendo a livello dei singoli governi. In un paese tradizionalmente attento alle questioni ambientali come il Regno Unito da anni hanno aperto un ufficio per la salvaguardia della salute delle piante il Chief Plant Health Officer annesso al Dipartimento del Cibo e degli Affari Rurali focalizzato sul sistema forestale interno, un passo in avanti.

Le foreste pluviali assorbono ogni anno almeno 60 gigatonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera terrestre, la stessa quantità del fitoplancton degli oceani. Stabilizzano le temperature ambientali con la parziale riflessione della luce solare prodotta dalle chiome degli alberi e con la quotidiana immissione nell’atmosfera di miliardi di chilometri cubi di acqua. Producono l’ossigeno che alimenta la vita animale del pianeta compresa la nostra.

Sono società intelligenti. Si nutrono con la luce del sole, con l’anidride carbonica, un limitato gruppo di minerali che estraggono con le radici coadiuvate dalle micorrize dal suolo e l’acqua. Risorse praticamente illimitate che non depauperano l’ambiente come fanno le attività umane. Praticano da sempre il riciclo dei loro scarti vegetali grazie alla collaborazione di microbi di molte specie diverse delle formiche e delle termiti che vengono ospitati all’interno dei loro ambienti. Un recupero che produce nutrienti per gli alberi stessi e i loro ospiti animali. Nelle foreste non si assiste al poco edificante spettacolo dei rifiuti delle nostre società che stanno diventando un fardello per la sostenibilità del nostro futuro.

Dispensano vita a tutti gli esseri viventi del pianeta con la fotosintesi clorofilliana che produce i carboidrati che sono alla base della loro alimentazione quotidiana, esseri umani compresi. Le poacee comparse sul pianeta circa cinquanta milioni di anni fa hanno dato origine attraverso un lungo processo di domesticazione iniziato dodicimila anni fa nell’attuale Medio Oriente a colture come il mais, il grano, il riso, alla soia che contribuiscono a gran parte della nostra alimentazione e di molti animali da reddito. Senza il contributo delle piante non avremo una così grande varietà di erbivori, di carnivori come pure le oltre quindicimila specie di uccelli.

Le società delle piante accolgono la vita animale all’interno del loro territorio alla quale fornisce cibo e protezione. Michael Benton della School of Hearth Sciences, University of Bristol, in un suo recente lavoro fa un lunghissimo elenco di animali che vivono nelle foreste. Insetti, ragni, tetrapodi, miliardi di microbi e di funghi, decine di specie di uccelli e di mammiferi erbivori e carnivori. Una straordinaria biodiversità senza la quale il nostro modello di vita probabilmente non sarebbe possibile.

In attesa che il tema della difesa delle società delle piante diventi patrimonio degli Stati, il Rewilding apporta un contributo significativo. Si tratta di un insieme di tecnologie dolci finalizzate al ripristino della vita animale e vegetale di aree fortemente compromesse. È diventato un intervento diffuso in alcuni stati dell’Europa e delle Americhe. Viene ricostruita l’originaria catena trofica composta da alberi, arbusti, praterie, dalla ricchezza microbiologica del suolo e vengono reinseriti gli animali tipici dei territori degradati, erbivori e carnivori. Un intervento di questa portata realizzato su cinquantamila chilometri quadrati in una regione forestale della Guyana ha ripristinato in alcuni anni la sua biodiversità originale e la capacità di assorbire anidride carbonica dall’atmosfera.

Antonio Marsilio

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