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L’Himàlaia, una sfida con la morte. Perché così tanti vogliono scalarlo?

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L’Himàlaia o Himalaya, in sanscrito हिमालय, “dimora delle nevi”, dall’unione di hima, “neve”, e ālaia, “dimora”), è un sistema montuoso dell’Asia meridionale, che si innalza a settentrione del bassopiano indo-gangetico e a meridione dell’altopiano del Tibet, e che forma un gigantesco arco diretto da nord-ovest a sud-est con la convessità rivolta a sud. E’ il più imponente sistema montuoso della Terra, con numerose cime oltre i 6000 m e alcune superiori agli 8000. Si sviluppa per 2400 km, con una larghezza media di 200-250 km, tra l’Indo a Ovest e il Brahmaputra a Est. Politicamente è diviso tra Pakistan, India, Cina, Nepal e Bhutan.

Perché così tanti vogliono scalare l’Himalaya?
Il dibattito sull’affollamento di scalatori sulla montagna è molto acceso ed è direttamente correlato a una difficile, seppure consueta, relazione tra il numero di vittime e i troppi alpinisti. Molte delle guide raccontano le loro storie e le opinioni sono molto diverse. Sullo sfondo, comprensibilmente, c’è il loro lavoro, quindi difficilmente parleranno delle troppe spedizioni, però vero è che molti raccontano che la meta potrebbe essere scambiata per una gita in montagna dato il traffico che c’è. E questo, ovviamente, fra scendere la percezione di sicurezza.

“Era come stare in coda in un’affollata località sciistica” dice Dirk Collins, regista del Wyoming che collabora con la National Geographic Society. “Frustrante, ma soprattutto noioso, trovarsi in coda sull’Everest, certo non è quello che ci si aspetta”. La squadra guidata dalla National Geographic Society aveva programmato di arrivare alla cima ma è tornata indietro per via della folla. Alcune delle guide veterane invece respingono la teoria delle lunghe code come causa dei decessi, dicendo che le code sono il sintomo di problemi più grandi, e non la causa diretta della maggior parte delle morti. “Queste storie sono semplicemente false” dice l’americano Ben Jones, guida di Alpine Ascents International. “Nessuna delle morti di cui si è a conoscenza è stata causata dall’attesa in coda…sono piuttosto questioni legate alle decisioni che vengono prese”, inesperienza e azzardi, sostanzialmente.

Perché così tanti morti?
“L’Everest è cosparso di cadaveri. Quando si lascia il campo quattro e si arriva al “summit day” (ovvero il giorno in cui si raggiunge la vetta), si è così in alto che si riesce a malapena a portare su se stessi. Non si possono portare carichi pesanti, perciò se si muore lì sopra, le possibilità che qualcuno possa riportare a valle il cadavere sono molto poche. Ecco spiegati i cadaveri in vista. Basti pensare che alcune famiglie pagano dei team per recuperare i corpi e riportarli giù. In generale, tutti rimangono molto positivi ed evitano di parlarne, ma i corpi non si possono non notare perché i colori dei loro indumenti sono ancora brillanti. Si può scorgere della pelle scoperta, ma non vedrete teschi o ossa, dato che la pelle è talmente ghiacciata da essere quasi imbalsamata, sembrano statue di cera. Gli indumenti si agitano nel vento illuminati dal sole, ognuno con la sua storia da raccontare”, racconta l’esploratore britannico Matthew Dieumegard-Thornton.

In particolare, l’Everest è la cima considerata più bella, ma allo stesso tempo è tra i più tragici e pericolosi posti al mondo. Il suo profilo roccioso ha attirato numerose persone coraggiose, che volevano raggiungere il picco. Sfortunatamente, molte di queste sono rimaste per sempre tra i suoi ghiacci e le sue rocce. Infatti, più di 235 scalatori e persone del luogo sono morti mentre cercavano di guadagnare la cima più altra del globo. Il numero preciso è però incerto, poiché non tutti si registrano prima s’iniziare la scalata.

La pressione e l’aria rarefatta rendono impossibile respirare per lungo tempo. Tuttavia, nonostante il pericolo, l’aria gelida e la mancanza di ossigeno nell’aria che respirano, molti rischiano la vita solo per essere per pochi minuti sulla cima del mondo. Ma cosa c’è di tanto speciale in questo?
Il gusto dell’impresa, cioè quello che ti fa tentare a tutti i costi, a volte in modo sconsiderato.

Poi però basta un contrattempo, ad esempio una coppia davanti a te che si trova in difficoltà e ti blocca il passaggio, a farti ritardare e se stai spendendo l’ossigeno che doveva servire al ritorno, devi tornare indietro, c’è poco da fare. Altrimenti non ti basterà. E poi c’è il pericolo di impazzire. Letteralmente. “Un viaggio normale dura dalle 5 alle 6 settimane, e la maggior parte di questo cammino è pensato per fare in modo che il corpo possa acclimatarsi. Nella nostra spedizione c’è stata una buona rotazione, non ci siamo ammalati e abbiamo completato il viaggio al primo tentativo, in 5 settimane. Ma nulla può prepararti a quell’aria sottile, perché ti fa delirare. L’area in cui non c’è aria a sufficienza è chiamata La Zona della Morte. Là sopra ci si gioca tutto”, dice ancora Dieumegard-Thornton.

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