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La liquidazione ai lavoratori va pagata subito: storica sentenza della corte costituzionale

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La Liquidazione? Va pagata subito. Altro che: “Arriverà dopo morto…”, come scherza qualcuno. Così, tra il serio e il faceto, abbiamo sentito lavoratori statali, infermieri, dipendenti pubblici in genere, lamentarsi in questo senso per anni.
Il motivo? Il “Tfr”, soldi che il dipendente  accantona nella vita lavorativa, vengono poi corrisposti “a rate” a fine lavoro. Dopo due anni dal primo giorno di pensione arriverà  la prima tranche, ma essa avrà un tetto massimo di 40mila euro. I dipendenti che ne hanno accantonati 50mila o più, per esempio (cosa non remota lavorando d’obbligo 43 anni e tre mesi, con il ‘periodo finestra’ ) dovranno aspettare ancora uno o due anni per ricevere altre una o due rate, a seconda dei casi.

Ora però la Corte Costituzionale dice che tale trattamento è – appunto – incostituzionale. Non è più lecito pagare in ritardo le liquidazioni ai dipendenti pubblici, soprattutto quando tali ritardi si protraggono fino a cinque o sei o sette anni.
Secondo la Corte, questa pratica viola i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione. Inoltre, anche la rateizzazione dei pagamenti è stata messa sotto accusa.

La sentenza sta creando un vero terremoto nel bilancio dell’INPS, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, che nonostante l’anno positivo, si trova ora ad affrontare un’enorme problematica economica.
La sentenza riguarda infatti un vasto numero di persone (stimato intorno a 1,6 milioni secondo la UIL) in attesa di ricevere la liquidazione.
Se applicata rigidamente, questa decisione potrebbe comportare un dispendio di circa 14 miliardi di euro già nel prossimo anno, in confronto alle 150.000 uscite previste nel 2024.

La questione è stata sollevata da un sindacato autonomo, la Confsal-Unsa, che si è rivolto per la seconda volta alla Corte Costituzionale per contestare la prassi dei ritardi nei pagamenti delle liquidazioni e per rivendicare il diritto dei dipendenti pubblici a ricevere lo stesso trattamento di quelli del settore privato.
Attualmente, secondo le norme vigenti, un dipendente pubblico deve attendere due anni prima di incassare il Trattamento di Fine Servizio (TFS), senza rivalutazioni né interessi. Tale periodo di attesa può arrivare fino a sette anni nel caso in cui si opti per un’uscita anticipata di cinque anni, ad esempio utilizzando la Quota 100. La norma prevede infatti che il pagamento avvenga solo dopo che l’interessato abbia raggiunto l’età pensionabile di 67 anni.

La possibilità di differire il pagamento del TFS ai dipendenti pubblici fu autorizzata dal governo Monti-Fornero nel 2011, al fine di alleviare il carico finanziario dello Stato. Tuttavia, nel 2019, una sentenza della Suprema Corte aveva stabilito che il diritto del lavoratore pubblico alla liquidazione potesse essere sacrificato solo nei casi di cessazione anticipata dal lavoro. Un anno fa, anche il TAR del Lazio sollevò la questione della legittimità delle attuali norme che dilazionano il pagamento del TFS rispetto alla tempistica prevista per il settore privato, dove il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) viene liquidato immediatamente al momento del pensionamento.

Nella loro difesa, i rappresentanti legali dell’INPS avevano giustificato questa distinzione sostenendo che il TFS, ovvero la liquidazione per i dipendenti assunti fino al 2000 (parametrata all’80% dell’ultimo stipendio), e il TFR, riservato a coloro che sono stati assunti nel pubblico impiego a partire da gennaio del 2001, erano due tipi di indennità differenti. Secondo la loro opinione, solo il TFR per i dipendenti pubblici dovrebbe essere equiparato alle regole del settore privato, mentre il TFS no. Tuttavia, questa tesi non ha trovato accoglimento.

La Consulta ha stabilito che il differimento dei pagamenti va in contrasto con il principio costituzionale della giusta retribuzione, di cui il TFS costituisce una componente essenziale. Tale principio non riguarda solo l’ammontare adeguato del compenso, ma anche la tempestività dei pagamenti. La sentenza spiega che il TFS è un’indennità volta a soddisfare le particolari esigenze dei lavoratori in una fase della loro vita che li rende più vulnerabili. La Corte Costituzionale non ha annullato la vecchia norma, ma ha richiamato il legislatore a individuare i mezzi e le modalità per attuare una riforma in materia. Tuttavia, ha sottolineato che la discrezionalità del legislatore non può essere illimitata nel tempo e che l’inerzia nel prendere misure correttive non è tollerabile.

Questa sentenza rappresenta una svolta significativa nella questione dei ritardi nei pagamenti delle liquidazioni agli statali. Ora spetta al legislatore intervenire per adeguare le normative in vigore e garantire un trattamento equo per i dipendenti pubblici in termini di tempestività dei pagamenti delle liquidazioni. L’INPS e il governo dovranno affrontare questa sfida, cercando soluzioni che possano bilanciare le esigenze finanziarie dello Stato con i diritti dei lavoratori.

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