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Jean Luc Godard, due o tre cose che so di lui

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Jean Luc Godard sceglie di morire tramite suicidio assistito. Motivazione: stanco di vivere. Una motivazione che lascia sconcertati molti che, intimamente, considerano la vita come un bene non di proprietà propria. E viene da chiedersi se la morte di Godard, la scelta di interrompere una vita già comunque molto in avanti con gli anni, non possa essere simbolicamente una morte del cinema.

Di questo linguaggio che il regista coscientemente considerò di svelare agli spettatori grazie al suo film più celebre, “Fino all’ultimo respiro” (1960). In realtà il quesito da me posto non ha molto senso; il cinema non muore con Godard, non è nato con lui e lo oltrepasserà. Ma c’è un fatto: il cinema così come lui lo considerò, valutò, decostruì per molteplici e multiformi direzioni non c’è più. La sua fruizione è cambiata in maniera irreversibile, son cambiati i tempi di durata dei film, nuove generazioni si affacciano a giudicare, sezionare, interpretare il materiale cinematografico. La società è cambiata.

Godard, nell’ultimo periodo (cioè fin quasi la sua morte) ha continuato a lavorare, adottando soluzioni contemporanee, affidandosi all’elettronica e al lavoro “casalingo” per continuare a leggere i tempi attraverso la lente del cinema, che era probabilmente la sua prima vita; al secondo posto c’era la vita vissuta alla quale Godard pareva essere ancor meno interessato che al passato. Eppure vi fu un tempo in cui linguaggio e realtà nel cinema di Godard procedevano di pari passo.

Il secondo periodo godardiano, che recupera la lezione di Brecht era una costante osservazione dei tempi sondata attraverso la chiave marxista. Godard c’era e non solo nella dissezione del vaso di Pandora, in cui il tanto amato/odiato inganno cinematografico veniva non solo messo in crisi attraverso l’utilizzo dell’infrazione delle norme che era anche detournement delle norme fittizie che regolano la vita di esseri umani “addormentati” dal Capitale; c’era in campo della polemica politica del mondo occidentale e delle perversioni del sistema.

Ma esiste un film di Godard che non sia anche “fare politica”? Distruggere gli escamotage del cinema americano attraverso un ingenuo fan di Bogart che si lancia alla ventura, una “vita al massimo” soggiogata però ai modelli cool del cinema hollywoodiano non è anche accanirsi ferocemente contro la negazione del vivere come riappropriazione di sé stessi? Sempre in Godard decostruzione del linguaggio è rivoluzione, decostruzione del velo di Maya di un sistema che obnubila le menti e sostituisce la vita vera con sogni più piccoli del desiderio del sé in quanto tale? Formidabile critico dei Cahiers, coi quali andrà in rotta; amico/nemico del suo antico compagno di vita cinematografica Truffaut, in perenne amicizia/contrasto anche con la grande, umanissima Agnes Varda; punto di non ritorno della visione “rivelata” a tutti, egregio, insuperabile montatore di film (ribadisce che il montaggio è LA chiave del cinema); eppure il cinema oggi sembra uscirne quasi indenne, riproponendo serialità, cliche, nuove illusioni, nuove identificazioni che ancora una volta ricadono nel sociale, definendo la società globalizzata un unico sogno pop.

Forse Godard, che era sicuro di aver ragione, deve aver capito che la sua guerra è andata persa. Forse, e dico forse, qualcuno che ha in parte raccolto la sua eredità è Quentin Tarantino, che dedica al regista la sua casa di produzione, fondata con Roger Avary.

Ma anche qui siamo lontani dalla spietata dissezione del cinema come rappresentazione senza volontà, strumento attivo per spettatori passivi. Nè freddo sperimentatore, nè narratore ma felice punto d’incontro tra i due estremi per una nascita di una nuova narratività.

Forse Godard ha perso ma la sua lezione resterà sottotraccia per tanto tempo, attendendo il superamento persino del suo sistema, per un cinema che non sia solo un atto nichilistico o ancor meno un’eterna citazione/riflesso che si autofagocita.

Politico è soprattutto l’atto di nascita dello spettatore Nuovo di cui si attende ancora l’avvento.

Giovanni Natoli

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