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Anonimo Veneziano, un grande successo con una “Venezia non da cartolina”

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“Anonimo Veneziano” è innanzitutto una richiesta da parte di Enrico Maria Salerno. L’attore decise di debuttare alla regia cinematografica portando un suo soggetto allo scrittore Giuseppe Berto affinché ne ricavasse una sceneggiatura.
L’idea era semplice: la storia di un uomo e una donna, in passato amanti, che si ritrovano dopo tanti anni a Venezia.
Berto riuscì a scrivere solo dei dialoghi a cui poi Salerno aggiunse la struttura delle scene. In seguito al successo del film lo scrittore decise di adattare la sceneggiatura a romanzo nel 1976; il libro si può quindi definire una novelization.

Ma “Anonimo Veneziano” per molti fu la risposta all’altro grande successo cinematografico dello stesso anno, “Love Story” di Arthur Hiller; una storia d’amore tra due giovani (Ryan O’Neal e Ali McGraw) che si conclude tragicamente a causa della malattia di lei. La malattia c’entra anche in “Anonimo Veneziano”; credo di non fare uno spoiler, data la notorietà del film (ma così siete avvisati), ricordando che nel film di Salerno è Enrico, il protagonista-vestito come il tenente Colombo, a soffrire di un tumore al cervello da cui non può guarire.

L’uomo, che non è riuscito a diventare direttore d’orchestra come era nei suoi sogni di gioventù ma è oboista dell’orchestra della Fenice, decide di rivedere il suo grande amore del passato; Valeria, madre di suo figlio, che alla vita libera ma piena di incertezze e di corna spacciate per amore libero da Enrico, aveva deciso di lasciare il musicista per scegliere la normalità borghese: casa, famiglia, benessere, dignità, a prezzo di non amore. In tutto ciò a fare da specchio alla vicenda, un “passo a due” senza praticamente nessun altro personaggio, la presenza costante e fantasmatica di una Venezia periferica, immersa nel grigiore autunnale. Una scelta inedita per il tempo che vede la città quasi la vera protagonista del film, inesorabilmente malinconica e terminale ma seducente.

Praticamente Venezia è Enrico, e forse Ferrara, dove ora vive, è Valeria. Questa scelta di mettere in scena una Venezia priva di orpelli fu la chiave del successo del film, ancor più dei pur adatti interpreti o del romanticismo disperato del racconto.
Salerno aveva capito il tono giusto in cui immergere la narrazione grazie a delle location che finalmente raccontavano una Venezia non da cartolina. Dalla celebre scena della spaghettata alla Locanda “Montin”, a san Trovaso, che per decenni espose le immagini di scena della pellicola all’ingresso, alle “casette” alla Palanca della Giudecca (scelta davvero inattesa), sino alla Casa dei tre Oci sempre in Giudecca, nella residenza del pittore Sciltian, “Anonimo Veneziano” fa ancora oggi testo per quanto riguarda il modo nuovo di vedere la città, sempre a rischio di oleografia, con parziale e ben più nobile eccezione de “Il Terrorista” (1963) di Gianfranco de Bosio. (Le location esatte di “Anonimo veneziano” | il Davinotti link del sempre benemerito sito di cinema, in questo caso frutto di un ancora più grande del solito lavoro di ricerca).

Una città vista con occhi nuovi, una storia drammatica, due attori giovani e affascinanti in quel momento sulla cresta dell’onda, gli anni Settanta, le musiche di Stelvio Cipriani e la sorpresa del riscoperto “Adagio” attribuito ad Antonio Marcello (in realtà è di Remo Giazzotto), che tante e tante volte verrà ascoltato, riprodotto e citato. Chi non ricorda la famosa scena in cui Enrico dirige la prova? (In realtà il brano venne arrangiato e diretto da Giorgio Gaslini). Ma non ultima la splendida fotografia di un mai troppo ricordato Marcello Gatti, che seppe trovare la luce perfetta per il mood che voleva Salerno.

Un grande film, quindi? Ecco, non proprio. Lo so che tocco un tasto che potrebbe risultare sgradito ma a mio parere, nonostante tutte le qualità testè elencate “Anonimo Veneziano”, stringi stringi, è una pellicola patetica e verbosa, che sopperisce a tutto un bric a brac di “discorsi importanti” e “disperata vitalità”, amore e morte, con la forma, quella sì memorabile.
Un giorno mi prenderò la briga di scrivere un libretto sul cinema borghese italiano tra i Sessanta e i Settanta, di cui uno dei massimi esempi resta “Metti una sera a cena” di Patroni Griffi (e proprio da questo film Salerno prenderà gli interpreti, soprattutto la Bolkan, caldeggiata dalla grande produttrice Marina Cicogna, che finanziò il film di Patroni Griffi).
Un cinema che si muoveva in un’epoca ribollente di idee e di contestazioni, fornendo un cinema retrivo di stampo alto borghese e dalla forte impronta teatrale, dove, mettendosi apparentemente in discussione, in realtà si parlava addosso.

Così è anche per “Anonimo Veneziano”; un privato, in anni in cui il “privato” doveva diventare “pubblico”. Un fotoromanzo in cui si gioca con temi di sin troppo facile presa (la malattia, l’amore perduto, l’artista libero ma fortemente stereotipato e semplificato nell’idea di libertà che ha in mente).
La tematica calda del film è comunque il divorzio, che all’epoca non era ancora legale e a cui Salerno, come si evince dal film, si dimostra contrario.

Rivisto oggi “Anonimo Veneziano” denuncia ancor di più i forti limiti già evidenti al tempo; ma vale anche la pena soffermarsi sui motivi per cui al tempo molti spettatori restarono colpiti dal film. Non solo perché era un romanzetto d’amore e morte in cui il piglio contemporaneo malcelava le istanze già vetuste degli snodi e dei subdoli trucchi narrativi per coinvolgere lo spettatore, alla ricerca di un film “normale” in un mondo non solo cinematograficamente coinvolto in grandi mutamenti sociali e culturali.

La rappresentazione di Venezia è senza dubbio vincente e riuscita, con le sue zone inesplorate e al tempo prive di turisti e il clima piovoso che la adornava di un nuovo appeal rarissimamente visto in un film.
Sarebbe ingiusto tacere il lavoro di ricerca dei luoghi, la sincerità con cui Salerno voleva raccontare la sua storia, il lavoro di Gatti. In futuro il regista produrrà film peggiori; oltre al mortifero e reazionario “Cari Genitori” sempre con la Bolkan e Maria Schneider, forte di “Ultimo Tango a Parigi”, nel 1978 chiuderà la sua trilogia registica con un altro drammone d’amore e borghesia che ho avuto la (s)fortuna di vedere in prima visione al cinema: ”Eutanasia di un amore” (1978) dove ritroveremo Musante diviso tra due bellissime: Ornella Muti e Monica Guerritore.

“Anonimo Veneziano” è certamente il suo film migliore ma resta quel che è: un fotoromanzo, interessante al massimo come analisi dei tempi anche nelle forme reazionarie alla modernità e per rivedere, questo senza dubbio, una Venezia oggi perduta.

Comunque, la memoria del film di Salerno non è scomparsa in città: questa qui sotto è una foto che ho scattato il 10 settembre 2023 alle “Casette” della Giudecca, durante il Festival delle Arti. La scena del film in cui Valeria ed Enrico si recano proprio in quel luogo. Non proprio una Venezia da cartolina

ANONIMO VENEZIANO
(1970)
Regia: Enrico Maria Salerno
Con Tony Musante, Florinda Bolkan

Giovanni Natoli

Anonimo Veneziano alle 'Casermette' della Giudecca
Anonimo Veneziano alle ‘Casette’ della Giudecca

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