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Millennium – Uomini che “massacrano” le donne

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Luca Ferrari, giornalista/fotoreporter
ferrariluca@hotmail.it

Atmosfera plumbeo-glaciale per il nuovo film di David Fincher. Dove la neve non è una soffice coperta con cui danzare, ma un gelido e inesorabile destino che ti stritola le mani conficcando pietra su pietre dentro i polpastrelli. La crudezza della vita è il ghiaccio della prevaricazione. Del truce mistero. Di storie di violenza e abusi maschili sul sangue del proprio sangue, e su quello dimenticato di giovani ragazze stuprate e ammazzate senza pietà . Il geniale regista di Seven, Fight Club e The Social Network ha iniziato a rileggere la celebre trilogia dell’autore svedese Stieg Larsson (1954-2004), con il primo capitolo “Millennium – Uomini che odiano le donne” (2011, The Girl with the Dragon Tattoo).

Cronaca giornalistica e omicidi irrisolti si mescolano insieme. Nella classica e impari sfida tra informazione di denuncia e potere prevaricatore, a subirne le peggiori conseguenze è (quasi) sempre il primo. Lo impara a proprie spese anche il navigato reporter Mikael Blomkvist (un Daniel Craig molto Julian Assange e poco Bond per fortuna), che si ritrova deriso e dalla parte del torto per un articolo pubblicato sulla rivista Millennium, ingannato da una sua fonte e con troppe poche prove per dimostrare la veridicità  dei fatti. L’opportunità  per prendersi una pausa dalla stampa d’assalto gliela offre Henrik Vanger (Christopher Plummer), il grande vecchio di una delle più potenti famiglie di Svezia, per chiedergli di far luce, grazie al suo talento investigativo, sulla nipotina Harriet, scomparsa inspiegabilmente quarant’anni or sono.

Come una metafora, il primo impatto nella nuova realtà  per Blomkvist è una tormenta di neve. Anticipazione leggera di quello che lo aspetterà . Un biglietto nei meandri di una famiglia tanto importante quanto densa di lati oscuri. Ma se a una prima vista è la vicenda della famiglia Vanger a occupare il centro della scena, minuto dopo minuto, la telecamera si concentra in parallelo sulla storia di una ragazzina bardata di nero, che con il suo modo di vivere non borghesemente accettato, incarna il valore opposto di quell’ingombrante combo familiare, subendone però alcune delle medesime e tragiche conseguenze. Lei si chiama Lisbeth Salander (Rooney Mara), genio silenzioso del computer. Abbigliamento dark-punk. Poco propensa alla socialità . O forse troppo onesta nell’anima per scambiare anche solo due false parole con chi non le interessa.

Un apparentemente inspiegato eccesso di rabbia l’ha obbligata ad avere un tutore per usufruire del denaro che le serve per vivere. Una creatura facilmente etichettata come “strana”, e che grazie alla superficialità  delle istituzioni si ritroverà  a tu per tu con un mostro, Nils Bjurman (l’olandese Yorick van Wageningen), obbligata a soddisfarlo sessualmente in modo perverso e senza alcun consenso da parte sua. Quell’uomo che dovrebbe gestire il suo profilo psicologico e darle di volta in volta i soldi, si trasformerà  in un aberrante carceriere part-time, arrivando perfino a legarla di spalle affondandole da dietro tutta la sua perversa e fetida presunta mascolinità . Lisbeth non va dalla polizia. Mette in atto la propria vendetta. Direttamente nella tana del porco. Una scossa elettrica improvvisa, e nella scena è successiva la bestia è legata. Costretto a guardare quello che le ha fatto, e scoprendo che d’ora in avanti non potrà  neanche sfiorarla con mezzo dito o il filmato sarà  trasmesso in rete.

Lisbeth non vuole che altre ragazze rischino quello che ha subito lei, e gli tatua sul corpo a caratteri cubitali (senza badare troppo se gli faccia male o meno) la scritta I AM A RAPER PIG – sono un maiale stupratore. Le due storie s’incontrano. Blomkvist e Lisbeth iniziano a lavorare insieme. Intuito, mestiere e modernità  portano alla risoluzione del mistero di casa Vanger. E anche in questo caso, l’orrore sguazza tra le mura domestiche. La giovane Harriet non è morta. È scappata da un padre prima, e un fratello poi, che abusavano sessualmente di lei. Il padre è morto. Il fratello Martin (Stellan Skarsgà¥rd, il Bill giramondo di Mamma mia, 2008), no. È un signore che regolarmente, nella solitudine della sua immensa casa in cima a una collina, stupra e ammazza donne senza pietà . Una persona che mentre ha la sua giovane vittima legata e nascosta al piano sotterraneo, s’intrattiene con gli ospiti bevendo buon vino e mangiando bistecca d’alce.

Come ha fatto in modo diretto il regista di origine ebraica Steven Spielberg, chiamando spesso in causa i carnefici per eccellenza del suo popolo in film più leggeri come Indiana Jones (celebre la frase del protagonista nel terzo capitolo della saga quando scopre un laboratorio segreto tedesco in piena II Guerra Mondiale e pronuncia la frase: “nazisti, io la odio questa gente”) e nel suo drammatico capolavoro Shindler’s List (1993), così Larsson, forte dei suoi ideali dichiaratamente femministi e contro il razzismo e la destra (è noto il suo impegno per scoprire e rendere pubbliche le attività  neonaziste in Svezia grazie alla fondazione Expo), inzuppa la sua trilogia dei suoi più nobili ideali. Nella famiglia Vanger c’è più di un parente dichiaratamente nazista. Eppure l’artefice dei truculenti omicidi è proprio la persona più insospettabile. Mostrandoci così ancora una volta che il Male più nero è dove meno ce lo si aspetta.

La domanda però resta. Più di una. Quante Lisbeth e Harriet ci sono lì fuori? Quanto fa la società  civile per proteggerle davvero? La giovane Harriet non viene troppo presa in considerazione quando racconta l’accaduto della violenza, e per questo cerca il modo di fuggire inscenando una finta morte e chiudere così i conti con i fantasmi più atroci del proprio passato. Lisbeth è pura dinamite e si fa giustizia da sola. Ma la sua forza è nella sua corazza. Di fatto è una ragazza sola. Intelligente e lottatrice, ma con il cuore di una bambina, cosa intuibile anche dalla sua frettolosa alimentazione su cui Fincher punta, non a caso, la telecamera: lattine di coca-cola e happy meal. È facile dichiararla un’associale senza possibilità  di redenzione (…). Lisbeth e Harriet, creature sfregiate dalla brutalità  maschile. Nel film “Millennium – Uomini che odiano le donne” (2011, The Girl with the Dragon Tattoo) le donne non vengono solo uccise. Sono dilaniate. Private di tutto ciò che sono. Torturate nella mente prima, e poi eliminate. Spazzate via dal mondo. Uscendo dalla presunta irrealtà  della letteratura e del cinema, è tutto così diverso? Cosa si dovrebbe aspettare una donna che viene al mondo in uno stato dove una sentenza della Corte di Cassazione (N.4377/12) stabilisce che per l’accusa di stupro di gruppo non è obbligatorio il carcere per gli autori del fatto? Quante donne in Italia non denunciano le violenze casalinghe perché la legge non le tutela abbastanza? La maggioranza. Drammaticamente e tristemente, la maggioranza. E questo non è un film. Adesso, in questo momento in cui stai leggendo, una donna ha paura. E nessuno la proteggerà  mai.

[10/02/2012]

Laura Beggiora
[redazione@lavocedivenezia.it]

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