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INTERVISTA A SILVIA GIRALUCCI | Regista di Sfiorando il Muro

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Silvia Giralucci è madre di due bambini. Ha 41 anni ma per trentotto è cresciuta senza papà . Lui, Graziano Giralucci, è stato ucciso dalle Brigate Rosse a Padova il 17 giugno del 1974 assieme a Giuseppe Mazzola. Furono le prime vittime in Veneto delle Br negli Anni di Piombo. Una storia di cui si è parlato poco nel tempo, una delle tante rimaste senza una verità  per anni e che la giornalista padovana ha provato a ricostruire con un libroprima (L’inferno sono gli altri – Mondadori) e con un film documento poi (“Sfiorando il Muro”) presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema del Lido. Silvia è lei stessa la regista della pellicola che venerdì e sabato verrà  proiettata a Venezia dalla Casa del Cinema della Videoteca Pasinetti a San Stae. In tutto sono programmate tre proiezioni: il 22 marzo (alle 17.30 e alle 20.30) e sabato 23 marzo (alle 20.30). Info 041.5241320.

Giralucci, il silenzio di quegli anni fa ancora rumore?

«E’ ancora assordante. Si è chiuso in un cassetto un periodo e tanti eventi perché si è preferito dimenticare anzichè capire. Importante parlarne per non ripetere e far ripetere quegli errori. E per questo mi sono battuta in questi anni. Non solo per la memoria della figura di mio padre».

L’obiettivo che si era posta prima di realizzare questo film è stato raggiunto?

«Ci sono due tipi di pubblico e due tipi di risposte a questa domanda e dipende dalla lettura che ne hanno dato quelli che hanno vissuto quegli anni da una parte, i giovani e gli stranieri dall’altra. Chi negli anni Settanta c’era e sa di cosa si parlava ha espresso un parere positivo ma contrastante. Alcuni dicono che ho trascurato la destra, che non è spiegato bene quale fosse la posizione politica di quel tempo. Ma io dico che il mio è un film sulla memoria e racconta la stessa storia da vari punti. Chi li ha vissuti quei tempi confronta il film con la propria memoria. La pellicola, invece, rispecchia vari punti di vista e lascia spiazzato lo spettatore cinquantenne che si aspettava di assistere solo a qualcosa che sapeva già . Molto diverso è l’atteggiamento degli stranieri e dei ragazzi che vedono nel film dei temi universali: lo sentono vicino come periodo, trovano un’ identità  di gruppo e la violenza come metodo di confronto».

Lei ha due figli ancora piccoli. Lo hanno visto il film?

«Ho scelto di non farglielo vedere. Primo perché credo non sarebbero in grado di capirlo e poi perché, per la loro età , ci sono scene forti che potrebbero turbarli».

Come nasce l’idea di “Sfiorando il muro”?

«L’idea del film è nata prima del libro, a me piaceva l’idea di raccontare quel periodo per immagini, ne ero e ne sono tuttora affascinata da quegli anni. Mi piaceva ridare corpo ai miei ricordi. Un’amica che se n’è andata 25 anni che ha visto il film mi ha riferito di aver ritrovato la Padova degli anni Ottanta che le era rimasta come fotografia nella sua memoria e che ora è totalmente diversa. E’ servita una grande ricerca per trovare le immagini adatte negli archivi pubblici e privati. Non abbiamo voluto usare immagini usate. E’ stato un lavoro molto lungo ma inedito da un certo punto di vista».

Anni di Piombo, un modo di dire che ancora oggi pesa come un macigno. Lei cosa cerca di spiegare ai giovani quando le chiedono qualcosa di quel periodo?

«I giovani fanno fatica a trovare delle domande perché nascono da una conoscenza. E a scuola non si va oltre Seconda Guerra Mondiale nel programma di storia. Quelli di Piombo sono stati anni di grande violenza e grande rinnovamento sociale. Ma esisteva un grande impegno per riformare ed è stato fatto».

Dopo qualche mese e numerose proiezioni quali sono le cose belle e quelle brutte che si è sentita dire sul suo film?

«Le cose belle sono i ricordi di mio padre, quelli delle persone che l’hanno conosciuto che mi hanno avvicinato o che mi scrivono ancora. Poi sono rimasta impressionata dal giudizio del pubblico russo nel corso della proiezione del 10 marzo a Mosca: c’era gente che alla fine aveva le lacrime agli occhi. Molti si sono dichiarati colpiti e partecipi giudicandola come un’opera che supera il contesto. Le cose brutte invece sono alcune recensione ideologiche che dicono che mi imputano di essere cresciuta in un ambiente di destra e che per quello ho dato un taglio di quel tipo. Ma fa parte del gioco e lo accetto anche se non lo condivido»

Il messaggio che lei voleva lanciare con questo film è arrivato dove voleva arrivare?

«Io penso sia arrivato, non solo ai cuori, ma anche oltre. Il 17 aprile esce in 50 sale in tutta Italia a seguito di una iniziativa del Ministero dei Beni Culturali. Un successo insperato. Io avevo grande timore quando al Lido lo scorso anni venne proiettato per la prima volta. Non volevo essere scontata. Il pubblico e il gradimento della gente mi stanno premiando».

Sala di un cinema di Padova. Occupata una solo poltrona. C’è suo padre Graziano. Si accendono le luci dopo la proiezione. Cosa pensa direbbe?

«Sarebbe felicissimo e orgoglioso. E mi abbraccerebbe».

Quante sono le verità  che devono ancora essere raccontate in questo Paese?

«Ce ne sono tantissime. L’unico metodo per arrivare alla verità  è lo studio delle lettere e dei memoriali come nel sequestro Moro. Solo il metodo filologico può consentire a raggruppare tutti gli elementi che servono per ricostruire le vera verità ».

Raffaele Rosa
[redazione@lavocedivenezia.it]

Riproduzione Vietata
[21/03/2013]


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