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La Venezia perduta, Coin: due Natali così

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Per decenni Coin ha rappresentato un simbolo irrinunciabile del Natale veneziano: una passeggiata davanti alle vetrine era sufficiente per catapultare ogni residente nel vivo dell’atmosfera festiva tra alberi, ornamenti e quattro piani di finestre sfavillanti.

Ma oggi non si vedono addobbi ed è il secondo Natale di fila: lo stabile è chiuso ormai da 17 mesi, completamente abbandonato dalla proprietà e dalla compagnia che lo gestiva.

Un palazzo di 2.200 metri quadrati a due passi da Rialto, nella città del turismo e dello shopping, che non fa più gola a nessuno.

Il 15 luglio 2018, infatti, si è calato definitivamente il sipario su una gloriosa attività che perdurava in Centro Storico da più di settant’anni, allietando generazioni di Veneziani alla ricerca del capo utile ma soprattutto conveniente.

Correva il 1947 quando la famiglia Coin decise di espandersi a Venezia, e fu subito un successo. Passavano gli anni, si succedevano le mode ma Coin era sempre lì, con i suoi quattro livelli di abbigliamento, accessori e profumi e un fornito “piano casa” che ospitava piatti, tovaglie e lenzuola.

Nel periodo di Natale, poi, il reparto si trasformava in un vero set da film americano con tavole imbandite, centrotavola e tantissime decorazioni.

Passarono gli anni, nel 1986 ci fu l’incendio che costò la vita a tre persone; ma Coin si riprese, superando la tragedia e restando al servizio del residente.

Nel frattempo, però, lo spopolamento aveva iniziato a farsi sentire: dai 170.000 abitanti dell’apertura si era passati a circa 55.000, e lo scettro dell’articolo più conveniente era ormai passato ai centri commerciali della terraferma e ai sempre più numerosi negozi d’importazione.

Coin aveva bisogno di rinnovarsi e di tentare una nuova strada, così nel 2015 avvenne un mastodontico restauro, costato 3 milioni di euro, che lo trasformò in “Coin Excelsior”, replicando la formula già adottata a Roma per la sede di Via Cola di Rienzo.

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Non più “grande magazzino” ma “premium department store”, con corner monomarca dati in gestione alle griffe.

Sparirono tutti i capi convenienti che avevano fatto la storia del negozio; i nuovi articoli si rivelarono però troppo costosi per i residenti ma non abbastanza per i bagarini, prevalentemente cinesi, che acquistano i beni di lusso da rivendere in patria (e che oggi rappresentano il maggior giro d’affari nel settore).

Lo stabile venne disertato e – come se non bastasse – la locatrice Paola Coin decise di quintuplicare il canone d’affitto ai suoi stessi famigliari, portandolo da 650 mila euro a 3,25 milioni l’anno.

Ci furono appelli, scontri, petizioni, ma la proprietà non volle indietreggiare di un solo metro, e così nel luglio 2018 avvenne la chiusura, definitiva, anticipata da un’interminabile fase di agonia con piani sempre più deserti, scaffali sempre più spogli e dipendenti sempre più tristi – ai quali lo sconforto si leggeva negli occhi.

E da quel giorno, nessuno si è più fatto vivo, nonostante si parlasse di una conversione in Oviesse o di un interesse da parte di Rinascente e H&M: da 17 mesi il palazzo è lasciato a se stesso, in una zona battuta ogni giorno da decine di migliaia di turisti.

La storica insegna sul ponte è stata rimossa, sebbene l’intonaco ne conservi l’indelebile traccia; le vetrine, coperte dalla carta, sono state vandalizzate da diverse scritte a pennarello, e la stessa sorte è capitata alle colonne.

A luglio del 2018 Coin di Venezia ha chiuso e del fatto non se n’è occupato più nessuno: un’ulteriore prova è l’acqua stagnante e ormai putrida che si è accumulata all’ingresso, segno di quanto le maree siano entrate e probabilmente stiano ancora lì, intaccando pavimenti, murature e vanificando il faraonico restauro di appena quattro anni fa.

In una città da 28 milioni di turisti l’anno c’è un palazzo di quattro piani che versa nel totale abbandono, e dei 94 dipendenti che ci lavoravano non c’è più alcuna traccia.
Ma il turismo non portava ricchezza?

Nino Baldan

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