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Suicidi in carcere: 62 da gennaio 2022, un dato impossibile da ignorare. Di Andreina Corso

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“Quel ventunenne in carcere non doveva starci”, secondo il Tribunale di Milano. La denuncia giunge dall’Associazione Antigone, all’interno del suo ultimo rapporto sulla popolazione detenuta nelle carceri del nostro Paese. L’analisi offre la visione di un mondo che esiste, senza essere visto, che i più sentono come un luogo distante e in fondo destinato all’oblio: una specie di eutanasia da abbandono.

Il ragazzo, G:T, era detenuto a San Vittore dall’agosto del 2021 per il furto di un telefonino; nel mese di ottobre il giudice aveva disposto il suo trasferimento in Rems ( Struttura di accoglienza per le persone con disturbi psichiatrici), in quanto una perizia specialistica aveva stabilito la sua incompatibilità con il regime carcerario, a causa di un disturbo, definito borderline, della personalità.

Nella notte del 31 maggio, a otto mesi da quella pronuncia, G. T. si è tolto la vita. Nelle settimane precedenti ci aveva già provato altre due volte.

Pochi giorni prima, il 26 maggio, in una cella dello stesso reparto di San Vittore, si era suicidato un altro giovane ragazzo, italiano di origine egiziana.

Altra storia tragica, riporta Antigone “ è quella di G.P., un uomo di 30 anni con problemi psichiatrici che si è tolto la vita il 28 Giugno, nel carcere di Bari, dopo i primi due giorni di detenzione”. Potremmo continuare per arrivare al numero 62, che corrisponde alle persone ristrette che da gennaio di quest’anno si sono tolte la vita.

I suicidi in carcere: ci riguardano?

La crudeltà dei numeri che ci lasciano indifferenti, denuncia Antigone: 62 persone si sono tolte la vita dentro o fuori le celle, la disperazione le ha spinte a darsi, concedersi la morte.

Il caldo dei mesi estivi ha evidenziato ancor di più le situazioni di criticità di chi vive ‘ristretto’ senza la minima possibilità di trovare sollievo, di poter usare le docce per potersi rinfrancare. Pochi e quindi insufficienti i ventilatori acquistati dal Dap.

Basti pensare, argomenta Antigone, “che in alcuni istituti penitenziari l’acqua è razionata, come ad Augusta, oppure manca del tutto, come a Santa Maria Capua Vetere, che nasce scollegata dalla rete idrica comunale. In questo istituto ai detenuti vengono forniti 4 litri di acqua potabile al giorno mentre per le altre necessità è utilizzabile l’acqua dei pozzi artesiani. Nel 2020 era stata aggiudicata la gara d’appalto e l’impianto idrico comunale è stato completato. Manca l’allaccio, forse imminente: poi si vedrà”.

Gli osservatori di Antigone hanno rilevato che in quasi un terzo (31%) degli istituti visitati, ci sono celle in cui non sono garantiti i 3mq calpestabili per persona. Eppure gli ammonimenti della Corte Europea dei Diritti Umani avrebbero dovuto imporre di rimediare a quello che viene definito un inutile maltrattamento.

Al sovraffollamento, che non aiuta di per sé a combattere il caldo, si aggiunge anche il fatto che nel 58% delle carceri visitate c’erano celle senza la doccia per garantire igiene e refrigerio (anche se le norme del regolamento penitenziario del 2000 prevedevano che ci fossero docce in ogni camera di pernottamento entro il 20 settembre 2005).

Infine nel 44,4% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che limitano il passaggio di aria. Il tasso di affollamento effettivo è del 112% e oltre il7% dei posti regolamentari, non è disponibile.

“Secondo i dati DAP aggiornati al 30 giugno 2022 sono 54.841 le persone detenute negli istituti di pena. Di questi 2.314 sono donne e 17.182 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti, con un tasso di affollamento ufficiale dunque del 107,7%.

Se si analizzano però tutte le schede trasparenza dei 190 istituti penitenziari italiani, pubblicate dal Ministero della Giustizia, cosa che abbiamo fatto nel corso di luglio del 2022, si scopre che nei vari istituti sul territorio nazionale ci sono al momento ben 3.665 posti non disponibili. La capienza effettiva dunque scende a 47.235 posti, e il sovraffollamento effettivo sale, appunto, al 112%.

A oggi, si contano 33 bambini che vivono in carcere accanto alla madre, nonostante la riforma del Codice penale sui bambini, figli di detenute, approvato dalla Camera Il 14 Giugno, dando il via libera alla proposta di legge del deputato Siani che vieterebbe ai minori di vivere con le madri in carcere. Una legge di civiltà che, se passasse anche al Senato, colmerebbe un’attesa inevasa da cinquant’anni. La proposta doveva passare al vaglio del voto del Senato, ma la crisi del Governo, le elezioni, hanno di fatto impedito che la legge Siani approdasse finalmente su un terreno di civiltà.

In merito ai suicidi, Mauro Palma, Garante nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà, ha recentemente dichiarato che “queste tragedie dimostrano che il carcere è un non luogo, qualcosa che esiste ma non si vede, che non tocca chi è fuori dalle mura. La vita in carcere, con la pandemia, ha perso la “vitalità”. “Le restrizioni per il Covid – racconta Mauro Palma – hanno azzerato le attività dei volontari, i lavori teatrali fino all’incontro con i parenti. Questa è la vitalità che si è persa”. Accanto ai suicidi ci sono gli atti di autolesionismo. Cosa raccontano questi atti? Raccontano la richiesta di attenzione, raccontano la difficoltà di comunicare perché ci sono persone che non conoscono l’italiano o un’altra lingua. Raccontano di persone che improvvisamente vengono catapultate in una cella e non riescono a comunicare.
Una realtà che pressa anche gli Agenti della Polizia Penitenziaria perché, se ci si ferma a pensare, sono uomini che chiudono a chiave altri uomini”.

Gli effetti della guerra in corso, Il caldo hanno fatto il resto. Il problema della solitudine, la lontananza dalla famiglia e dagli affetti accrescono il malessere delle persone che scontano una pena, che sono in carcere cautelare, che attendono un processo. C’è chi a queste persone ci pensa e in qualche modo ci tiene a questi esseri umani che qualcuno vorrebbe chiudere a chiave per sempre.

Il Coordinamento del carcere Due Palazzi di Padova, per esempio, che aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” che don Davide Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio ha rivolto alla ministra (ormai ex) Marta Cartabia e al Capo del Dap Carlo Renoldi.

Una maggior possibilità di telefonare alle famiglie, gioverebbe alla qualità della vita e alla riabilitazione di chi è ristretto e influirebbe positivamente sulle loro famiglie, vittime loro malgrado, di qualcosa di cui non hanno responsabilità. Si pensi ai figli con un genitore in carcere, tanto per fare un altro esempio, esposti a giudizi collettivi ingenerosi e vittime di un pregiudizio corale, che, a quanto pare e si legge, rimane inesplorato.

Andreina Corso

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3 persone hanno commentato. La discussione è aperta...

  1. Il suo articolo, cara Andreina parla di una realtà a molti sconosciuta.
    Attaverso la sua penna e aggiungendo come sempre una l’umanita che la contrattistingue è riuscita a trasmettere l’insostenibilita di una situazione che induce i nostri carcerati all’unica via d’uscita la morte.
    Non credo che il carcere debba essere questo…..

  2. Andreina Corso, come sempre con documentata sensibilità, punta il dito sulle inefficienze dello Stato, sull’incapacità anche di rendere la detenzione un periodo di redenzione attraverso il riconoscimento della persona

  3. Sembra incredibile che in un paese civile come dovrebbe essere il nostro esista ancora una tale situazione.
    Ci si batte come è giusto contro gli allevamenti intensivi dei polli e animali in genere.
    Le carceri assomigliano a quelli.
    Leggi inapplicate che portano e sommano disperazione.

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