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NORMALITA’ di Micaela Brombo

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Sulle finestre arcobaleni appesi alle ringhiere ondeggiano al vento, mentre con lo scooter giro per
una città che sembra disabitata e che mi spaventa.
Ho l’autocertificazione in tasca, il casco calcato in testa, la mascherina mi chiude la bocca e i guanti
mi fanno sudare le mani.
Nel bauletto la gerla è piena. Sacchetti, tanti, ognuno col suo nome, lo scontrino appiccicato e i
punti della tessera, perché se niente ora è normale, c’è la voglia che sia tutto com’era.
Google Maps mi accompagna. Sottomarina è piccola, ci vivo da una vita, ma ogni giorno scopro
strade diverse e quartieri nuovi, in cui, senza uno scopo preciso, non passeresti mai. E in cui,
puntualmente mi perdo. Chiamo e mi ritrovo, la casa più a destra, la casa con la tenda a righe,
quella di fronte, aspetta dove sei, scendo io.
E scopro persone, impaurite e spaventate. Sole.
Appoggio il pacco a terra e da terra prendo la busta con i soldi, siamo d’accordo, se qualcosa non
va bene mi dici e te la cambio. E dentro i sacchetti quaderni, colori, puzzle, giochi, giornali. La vita
è ferma, sospesa. Ma la vita deve continuare e arrancando va avanti.

DPCM dopo DPCM, giorno dopo giorno, mentre la gente, ovunque, si ammala. Mentre la gente,
ovunque, muore. La vita va avanti tra i messaggi su Whatsapp con le richieste dei clienti, e di quelli
che clienti non sono mai stati e mai lo diverranno. Sacchetti pieni e sacchetti mezzi vuoti, a chi
serve tanto e a chi quasi nulla, ma quel nulla, ora, per loro è tutto, e porto tutto lo stesso.
A casa loro ci passo davanti. E se non è di strada, faccio che lo diventi, perché ora ciò che manca è
solo la normalità, e se basta una colla per far diventare un pomeriggio normale, che problema c’è?
La porto io.
Un marzo caldo, non fosse per la solitudine e i posti di blocco sarebbe anche piacevole uscire dal
negozio e farsi un giro in scooter, così tanto per farlo, senza un motivo valido. Solo per sentire l’aria
sulla faccia (non la sento, l’aria, la mascherina me la toglie, l’aria).
È un anticipo dell’estate questo, con quest’aria tiepida e questo sole caldo, quasi abbagliante.
Giornate giuste da passare in attesa dei foresti a cui affittare stanze e appartamenti; giornate perfette
per le passeggiate in diga e in riva al mare; giornate in cui sarebbe bello rilassarsi e prendere un
gelato seduti al tavolo del bar mentre i bambini si dondolano su un’altalena.
Ma NON si può, NON si può, e NON si può.
Nessun foresto, nessuna passeggiata, nessun gelato. Nulla di nulla. Solo casa e poco altro.
Strade vuote, ovunque.
Un’anima ogni tanto a spasso con il cane.
Il negozio resta aperto. Ho un’edicola e Conte ha deciso che posso lavorare e svolgere una vita
normale.

NORMALE… Fino a ieri discutevo tra me e me cosa dovevo farmene di questa edicola che mi
obbliga ad arrivare prima dell’alba, che mi impegna tempo ed energie per guadagni da miseria, che
mi ruba spazi che potrei usare meglio.
Mezzo negozio dedicato al nulla, un ramo secco che non frutta e che non rende e che prima o poi
vorrei recidere.
Mezzo negozio che non recido e forse non reciderò mai, ricordo della tenacia di mio padre che di
tutto fece per far valere il diritto di poter tenere questi cazzo di giornali, contando i passi per
misurare la distanza dalle altre edicole, imbastendo denunce per il divieto che veniva fatto, per il
diritto che veniva negato.
Giornali, che tanto ho odiato, e odio, per il tempo perso, ma, ormai per me, simbolo di perseveranza
e di caparbietà, di fermezza; monito al perseguire ciò che si ritiene giusto, a non farsi mettere mai i
piedi in testa da nessuno, a non far calpestare mai i propri diritti. Giornali, ricordo di mio padre.
Giornali che, nel lockdown, mi hanno fatto illudere che tutto fosse normale.
In cambio della normalità si lavora il triplo per metà guadagno. Chi collabora è a casa, in cassa
integrazione, e gli spetta una miseria. Ma in negozio non serve aiuto ora. Non viene nessuno, e per
chi viene, uno alla volta, per carità, gli altri fuori in attesa, basto io.

Io e mia figlia. Che ci guardiamo nella desolazione, pensando che, tutto sommato, non siamo in
terrazza a cantare Bella Ciao, non stiamo cercando il lievito come dannate, non abbiamo tempo per
le challenges che spopolano sui social.
Non siamo solo fortunate. Siamo privilegiate.
La sveglia alle 4:20 la mattina non è più una condanna. Le 12 ore passate a lavorare sono un dono
che mi viene fatto tutti i giorni. Il poter vedere gente, scambiare due chiacchiere nel tempo di dare il
resto. Chi ti trasmette paura, chi se ne frega altamente, chi si sente in diritto di starti a un passo
perché ha fatto il tampone e al tuo mi deve stare distante comunque si offre di mostrarti l’esito. Chi
non osa entrare e ti urla ciò che serve a un passo fuori dal negozio. Chi la mascherina ce l’ha cucita
addosso e chi la chiede in prestito all’amico per poter entrare. Tanta varia umanità, come al solito
del resto.
Questo, si, è normale.

 

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