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Le guerre e noi: l’orrore e le ispezioni. Di Andreina Corso

Confusi da ragioni e torti che la ragione respinge, dentro disquisizioni tattiche, rivendicazioni, diritti, vendette, conflitti armati in grado di provocare stragi, noi e le nostre improbabili tifoserie, saremo in grado un giorno di chiedere il cessate il fuoco?

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Liliana è in fila: c’è l’ispezione e devono accertare se sei sana, se puoi lavorare con efficienza. Se lo sei, passi ed esci dalla fila e vai nella direzione dei sani, radunati ai lati. Se non lo sei, come Janine, che ha le dita delle mani sanguinanti, le falangi tagliate da una lama d’acciaio durante il duro lavoro imposto a lei e alle altre ragazzine, mani che tiene nascoste dietro alla schiena (ma i nazisti non li imbrogli), attenti e disciplinati come sono, ti indicano un’altra direzione, quella delle docce di fumo.

Ti ordinano quell’altra direzione, come si usa nei campi di concentramento. Liliana è inorridita, ha paura, vorrebbe dire qualcosa alla sua amica, anche solo mi dispiace, abbracciarla, trattenerla, accarezzarle un braccio, baciarle la mano ferita o magari inginocchiarsi e supplicare ‘quei’ tedeschi, di lasciarla vivere, di avere pietà. A Liliana crolla il mondo addosso, il troppo odio annienta: rimane impietrita e muta. Liliana, l’ispezione l’ha superata, ma dentro il suo cuore si insinua un silenzio disperato esploso nel rimorso e nel rancore verso se stessa che pur sapeva di essere una bambina coraggiosa, leale e fiera.

Liliana Segre racconta sempre questo episodio che ancora le esplode nel cuore e la tortura. Lo racconta ai ragazzi che incontra nelle scuole, nei suoi libri, nelle numerose interviste dove si sente dire parole consolatrici, rassicuranti, come “che lei non avrebbe potuto fare niente, che anche Janine l’ha capito il suo terrore, che tutto era troppo spaventoso e crudele per essere affrontato da una bambina.
Eppure Liliana non ce la fa a perdonarsi, non vuole perdonarsi, troppo dolore nella memoria e troppa memoria incisa nel dolore.

Ho avuto modo di rileggere il libro di Liliana Segre e la storia di Janine, del silenzio e del rimorso si è travasata sulle guerre che oggi come ieri abitano la Terra, distruggendola, uccidendo e straziando corpi di uomini donne e bambini. E nel versarsi e debordare allagando i territori in guerra, ha fatto emergere la nostra fragile, sfuggevole consapevolezza rispetto a quel che succede ad esempio in Ucraina, in Russia, in Israele o nella fascia di Gaza. . . e di tante altre realtà violate, si potrebbe dire.

Il dolore di Liliana, mi permetto di chiamarla così, pensandola bambina alle prese con l’inferno, ci dice qualcosa alla nostra coscienza? Facciamoci un’ispezione a modo nostro: cosa sappiamo, cosa pensiamo delle vittime delle guerre? Talvolta le vediamo avvolte in lenzuola bianche fra le macerie, altre riverse a terra, arrese al male.
A volte le vediamo sedute per terra, affamate, a volte in un letto di ospedale, senza domani E noi? E noi non sappiamo chi sono, non le conosciamo quelle vittime, nulla sappiamo della loro voce, dei sorrisi, dei pianti, dei sogni, è come se vivessimo su Marte, noi, personaggi osservati da Isaac Asimov che non conosciamo più nessuno oltre il pianeta rosso. Sì, qualcuno di noi vorrebbe scendere sulla Terra per capire cosa succede, però costa fatica e siamo tutti o quasi” in tutt’altre faccende affaccendati”.

Confusi da ragioni e torti che la ragione respinge, dentro disquisizioni tattiche, rivendicazioni, diritti, vendette, conflitti armati in grado di provocare stragi, noi e le nostre improbabili tifoserie, saremo in grado un giorno di chiedere il cessate il fuoco? Mi si perdoni l’ingenuità e persino l’ovvietà. La guerra non è una necessità, è portatrice di morte e di odio, Papa Francesco invoca la Pace, non tanto e non solo come un pensiero ideale, invoca la volontà di ognuno di noi di spendersi in qualche modo perché un urlo universale convinca i promotori della guerra, che sono pochi in fondo rispetto ai popoli, che sono uomini (intoccabili?) ad abbandonare quelle strategie mortali che riducono gli esseri umani a foglie secche che si sbriciolano fra le dita.

Quel tenero e commovente rimorso di Liliana Segre, sarebbe importante contagiasse gli esecutori delle guerre, perché in fondo c’è sempre un tempo di ascolto della voce dei popoli, che chiedono cose semplici come pane, casa, lavoro, istruzione, sicurezza. Ci sarà, si spera il tempo del ripensamento per affidare alla giustizia, all’equità un domani senza armi, senza odio, senza vendette: un domani di Pace vissuta. Nel futuro, anzi da subito, mettiamoci convinti anche la nostra civiltà, la fatica e i nostri rimorsi come bene collettivo da spartire e amalgamare insieme alle parole instancabili e generose di Liliana Segre.

Andreina Corso

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