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FESTIVAL DI CANNES | Valeria Golino regista di Miele, il film sull'eutanasia

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NOTIZIE CINEMA | Miele l’angelo della morte, Irene la ragazza che cerca il suo posto nel mondo. Sono queste le due personalità  che convivono nel personaggio interpretato da una sorprendente Jasmine Trinca nel film “Miele”, debutto alla regia dell’attrice Valeria Golino, presentato al Festival di Cannes.
Quello che colpisce fin da subito è la delicatezza e l’attenzione che la regista utilizza per parlare di un argomento delicato come l’eutanasia
In un paese come l’Italia dove l’argomento è tabù, la Golino si immagina l’esistenza di queste entità  che, attraverso la somministrazione di barbiturici di uso veterinario, leniscono il dolore a chi, malato terminale, non ce la fa più a continuare una vita che non è più tale. Fin dalle battute iniziali si percepisce il dolore negli occhi degli ammalati e dei loro cari, per poi farsi strada incessantemente nell’apparente dura corazza di Miele che solo dopo l’incontro con l’ingegner Grimaldi (Carlo Cecchi) che si vuol togliere la vita per noia, capisce di non poter più sopportare il fardello da “portatrice di morte”.
Lo dice lei stessa: nessuna di queste persone vuole morire davvero, solo che non c’è altra scelta. Quello che lei insegna a Grimaldi e che segna poi la sua trasformazione da angelo della morte a quello della vita, è che nella vita ci sono cose per cui vale la pena vivere: da una corsa sotto la pioggia, ad una bella canzone che fluisce dalle cuffiette dentro il nostro corpo.
Un inno alla vita quello della Golino che senza giudicare, non si esime dal registrare una realtà  fatta di dolore, ma anche di gioia nelle piccole cose, gesti e persone, segnalati dai sorrisi di Irene quando guarda, ad esempio, un gruppo di ragazze ridere tutte assieme in treno.
Miele/Irene è viva, il battito del suo cuore che sentiamo e che a volte le fa mancare il fiato sottolinea che in lei scorre ancora vita, quella da sfruttare prima che sia troppo tardi, quella da sentire fuori dalla muta da sub che tanto ama indossare, facendo scorre sulla sua pelle nuda l’impetuosità  dell’acqua.
Una regia a tratti ricercata e per niente banale, fatta di moltissimi primi e primissimi piani, identificano una prova autoriale degna di nota, in una pellicola che, nonostante la tematica, non risulta mai prosaica o noiosa.

Sara Prian
[redazione@lavocedivenezia.it]
Riproduzione Riservata
[17/05/2013]

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