studiosi dell’Arte di Manet e cioè che molto del suo dipingere dipendesse dalla conoscenza e dall’amore che Egli portava per la pittura spagnola del passato [ leggi in primis VELASQUEZ per arrivare fino al tragico GOYA ], ma da questa mostra ricaviamo anche la netta sensazione che Egli ammirasse tanto quanto, e forse più, la grande pittura italiana, e veneziana in particolare, sensazione confermata dinnanzi allo straordinario “ d’apres “ dell’autoritratto del grande TINTORETTO nel quale riuscì a riprodurre la passionale intuizione del proprio deperimento fisico che il grande veneziano era riuscito a tratteggiare nel ritrarsi. Ci troviamo di fronte non solamente alla copia del capolavoro di un genio del passato, ma dell’accaparrarsi delle stesse emozioni, dello stato d’animo che guidarono la mano dell’immenso JACOMO nel momento in cui sentiva la vita sfuggirgli dalle mani; tutto ciò Manet deve averlo percepito fino ad una immedesimazione quasi fisica che l’avrebbe guidato in quella straordinaria riproduzione.
Ma il sintomo di una completa osmosi artistica si evince quando ci si trova innanzi alle due opere forse più famose qui esposte: “ Olympia “ e “ Venere “ di Urbino del Tiziano. Ogni dubbio decade, ci si rende conto che nell’opera di Manet ogni imput, poi elaborato, deriva dal superbo capolavoro del grande veneziano, sia detto con una profonda cognizione del tempo trascorso, della percezione di ciò che le due opere rappresentano per il momento in cui nascono, per la concezione del termine “peccato “ che due società lontane secoli l’una dall’altra davano a questo sostantivo e che le opere ben rappresentano con dettagli indicativi declinati dai due Autori, i quali sono stati capaci di evidenziarli differenziando, di fatto, tale concezione. Nel capolavoro tizianesco tutto l’ambiente risulta arioso, toccato da una luce sobria ma illuminante, il fondale si apre su un paesaggio brillante visto attraverso un elegante balcone alla veneziana, il tutto sintomo di libertà e
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