Mi accosto con l’idea di conciliare, ma ricorro alla forma, alla sostanza, alla radice: per non sbagliare.
Il vocabolario etimologico, professore per censo, dice “concilio, dal latino concilium, da cum e calare=chiamare”.
Quindi accostare, per dialogare e per capire.
Per accordare e armonizzare. E per mediare.
Chiamare: chiamano le parole dette e pensate, quelle rivelate o rimaste inespresse.
Quel che conta nel viaggio della parola che vuole incontrane altre, è l’umiltà nella scelta di conciliazione.
Pur innocentemente superbo, questo verbo affonda nelle domande senza annegare. Le prende ad una ad una e si accomoda sull’onda del pensiero pronto ad accogliere e contemperare le ragioni di terre verbali sconosciute o poco frequentate.
In fondo è la radice a sollecitare, senza mai pretendere, l’ascolto.
E’ così che la parola travestita si sveste, sa di poter ricevere attenzione nel momento che chiama. La sua voce è esile e insieme forte, persistente, come nebbia che induce a scoprire i contorni smarriti del cielo.
Andreina Corso