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Visioni in quarantena: “I’am a mother” e “Errementari”

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Visioni in quarantena: "I'am a mother" e "Errementari"

Da una madre premurosa e robotica a un frabbro del diavolo. “I’am a mother” e “Errementari”, due perle della fantascienza e dell’horror

In attesa del “tana libera tutti”, la vita in quarantena continua e passare il tempo sta diventando sempre più difficile. Chi vive in coppia, rischia ogni giorno di più di farla scoppiare e chi invece è solo, ha probabilmente cominciato a intrattenere discussioni filosofiche con sedie e frigoriferi.

Eppure, non dobbiamo arrenderci, la battaglia contro il virus sarà prima o poi vinta e torneremo a correre liberi nei prati fino a stancarci.

Nel frattempo, dopo avervi suggerito di recuperare lo splendido “La città incantata” dello studio Ghibli, è arrivato il momento di proporvi ben due film. Oggi raddoppiamo, e parliamo di due generi diversi ma che rientrano indubbiamente nelle mie preferenze. Mi riferisco alla fantascienza e all’horror.

Per quanto riguarda il primo, negli ultimi anni è diventato sempre più difficile trovare qualche produzione veramente valida. Ci troviamo spesso di fronte a pellicole che rimasticano le stesse tematiche figlie di cult del passato. La freschezza del genere è andata perduta, eppure, cercando cercando, qualcosa riemerge dal barile.

Uno di questi è sicuramente “I am a mother”, una produzione originale Netflix per la regia di un esordiente, l’australiano Grant Sputore. Questa piccola perla è una rarità anche nell’ammasso di produzioni della piattaforma online, che per quanto riguarda i lungometraggi latita. Anzi, per il 90% possiamo dire che sforna prodotti aberranti in cui giungere alla fine è impresa per veri eroi.

Non è il caso di “I am a mother”, benché riproponga le vicende di un’umanità estinta e dell’unico sopravvissuto. Una sopravvissuta che però in questo caso, non vaga solitario sulla terra ma vive al sicuro in un bunker sotterraneo e iper-tecnologico. A occuparsi di lei un androide “madre” che la accudisce da quasi vent’anni, senza possibilità di uscita. Tutto procede per il meglio, fino all’arrivo di una donna dal mondo esterno.

Il punto forte del lavoro di Sputore è la sceneggiatura a opera in realtà di Michael Lloyd Green che non si perde in pesantissimi spiegoni. Anzi, procede disseminando indizi che accrescono il pathos e la curiosità dello spettatore.

Non aspettatevi scene spettacolari e caotiche, l’intero film scorre all’interno di spazi chiusi, con due attrici e una voce materna ma sempre meno rassicurante con il procedere del tempo. Al centro della tematica del racconto. È presente sicuramente il rapporto madre-figlia ma anche quello con la tecnologia sempre più invadente.

Come detto, la produzione, nonostante sia Netflix, ricorda il buon vecchio concetto indipendente: pochi attori, un’unica location e una sceneggiatura di ferro. Uno script che per anni è rimasto nella famosa “lista nera”, cioè quelle trame bellissime che però non trovavano un produttore.

Recuperatelo, perché il finale inaspettato, vi farà pensare e discutere per settimane e questo riescono a farlo solamente i grandi film.

Avevo anticipato, che avrei parlato di due film ed è quindi il turno dell’horror. In questo genere, la situazione è ancora più drammatica, in tutte le produzioni ma in Netflix particolarmente. Il catalogo del colosso americano è qualcosa da accapponare la pelle, salvare qualcosa (tranne i titoli storici e più conosciuti), è veramente difficile.

Non si contano gli improponibili produzioni indiane e thailandesi (qualche rara perla c’è anche qui comunque) e titoli della serie Z anni settanta e ottanta. A salvare la baracca la Spagna.

Da quasi vent’anni il pese iberico è un punto di riferimento per il genere, dai tempi di Bryan Yuzna e del compianto Stuart Gordon che proprio in spagna hanno trovato nuova linfa, fino a Jaume Balagueró e al geniale Álex de la Iglesia.

Non lo nascondo, amo profondamente Iglesia fin da “Azione mutante”, il suo folle esordio. “Errementari. Il fabbro e il diavolo” la pellicola che vi voglio spingere a scoprire, è proprio una sua produzione datata 2017.

Possiamo definirlo horror ma in realtà “Errementari” è una favola che affonda le radici nel folklore basco. In particolar modo nella leggenda di Paxti errementari, il fabbro che ha costruito una vera e propria fortezza attorno alla sua abitazione in fondo al bosco. All’interno custodisce gelosamente i propri segreti, finché un’orfana non riuscirà a scardinare le serrature della fucina.

Ambientato alla metà dell’ottocento, “Errementari” vive di tutti gli stilemi della favola, comprese le atmosfere horror. La nebbia, il bosco, Paxti stesso, considerato come l’orco che rapisce e mangia i bambini.

Il film vive di atmosfera e di personaggi, tutti fragili e inetti, dove la religione diviene la vittima predestinata nelle intenzioni del regista Paul Urkijo Alijo. Anche lui alla sua opera prima.

Un’opera che riesce a sopperire alla povertà dei mezzi economici a disposizione, con la scrittura e proprio la regia, Sentiremo ancora parlare di Alijo. È riuscito a capire il vero spirito dell’horror, come i grandi maestri Carpenter o Romero: trasmettere dei messaggi attraverso il genere. In questo modo, ciò che vogliamo dire arriva diretto al pubblico, a 360°.

Alijo vuole dirci che il diavolo esiste ma non come lo abbiamo sempre rappresentato, che il bene e il male non sono così facilmente distinguibili e che nulla è come sembra. Giudicare senza conoscere è il più grave degli errori.

“Erremetari” è davvero una piacevole scoperta nel marasma di un genere che sembra sempre agonizzante ma ancora capace di sussulti sorprendenti.

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