Battere le mani per dire che hai detto bene, che hai pronunciato la frase giusta, la parola appropriata alla mia e altrui soddisfazione.
Bravo, hai usato le parole che volevo sentire e che mi danno ragione anche se ho torto.
L’applauso è una conferma anche insieme a qualche fischio, ti rende subito attore affermato e il teatro diventa la piazza, il salotto televisivo, uno scranno istituzionale.
Gli spettatori non mancano e qualche volta si accontentano (momentaneamente) di frasi ovvie e di luoghi comuni.
Basta parlare alla pancia e l’applauso arriva.
Basta non analizzare troppo, non far funzionare criticamente la ragione e l’applauso scende dalle stelle senza portare pace. E invade, sperpera certezze, offusca il buonsenso, che si sa, è roba da poveri non applauditi. Bravo, bis, urla dal pubblico un uomo che applaude un politico che per spiegare il valore dell’identità e dei pericoli dela multietnicità usa serafico la parola imbastardire (si riferisce alla razza…), ignorando, ahinoi che la razza come concetto non esiste.
Ma a lui e ai suoi simili, a quelli che lo applaudono, cosa gliene importa dell’antropologia?
A lui sta a cuore il suo campo, il suo cortile, la sua “roba”, il suo dialetto e già, per prevenire visite indesiderate ci ha messo uno spaventapasseri .
Gli uccelli applaudono.
Andreina Corso
23/06/2015
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