Niente ergastolo se il figlio ucciso
è “solo” adottivo: lo ha chiesto alla Corte di Cassazione la
difesa di Andrei Talpis, un cittadino moldavo di 53 anni che nel
novembre del 2013, a Remanzacco (Udine), ha ucciso il figlio
Ion, di 19 anni, con una coltellata al petto, al culmine di una
lite durante la quale il ragazzo si era frapposto tra i
genitori, salvando la madre, che venne ferita gravemente dal
marito.
E la richiesta non solo è stata condivisa dalla Procura
Generale della Cassazione, ma la stessa Procura ha chiesto alla
Corte di accoglierla e così l’ergastolo, inflitto a Talpis dal
gup di Udine nel 2015 e confermato dalla Corte d’assise
d’appello di Trieste nel 2016, é stato annullato.
La Suprema Corte ha deciso senza rinvio e ha disposto la
trasmissione degli atti alla Corte d’assise d’appello di Venezia
per la quantificazione della pena, prescrivendo che non deve
comunque scendere sotto i 16 anni di reclusione.
Ion era stato adottato quando era piccolissimo e la famiglia
viveva ancora in Moldova. “Se sul piano civilistico l’adozione
comporta la parificazione di status con i figli legittimi
operata dalla legge – spiega l’avvocato Roberto Mete, che ha
difeso Talpis davanti alla Cassazione – per il Codice Penale la
distinzione fra figlio naturale e figlio adottato permane. E
questo basta a escludere l’aggravante speciale che, proprio in
virtù dell’esistenza di una discendenza diretta tra la vittima e
il suo carnefice, in caso di omicidio prevede la pena del
carcere a vita. Lo ha riconosciuto anche la Procura generale e
sarà eventualmente la Corte Costituzionale, se le sarà
sottoposta la questione per un altro caso, a stabilire che
questa disparità, che la legislazione ad oggi contempla, è da
considerarsi illegittima o meno”.
Il fatto che tra Ion e il papà assassino non ci fosse legame
di sangue era emerso, solo alcune settimane dopo il delitto,
dagli accertamenti scientifici svolti nel corso delle indagini.
Fino a quel momento Andrei Talpis non aveva parlato della
circostanza nemmeno con il proprio difensore.
La vicenda processuale di Remanzacco è la medesima che alcuni
mesi fa aveva portato a una condanna dell’Italia da parte della
Corte europea dei diritti umani. I giudici di Strasburgo avevano
stabilito che “non agendo prontamente in seguito a una denuncia
di violenza domestica” fatta dalla mamma del ragazzo, “le
autorità italiane avevano privato la denuncia di qualsiasi
effetto, creando una situazione di impunità che aveva
contribuito al ripetersi di atti di violenza, che alla fine
hanno condotto al tentato omicidio della donna e alla morte di
suo figlio”.
La Corte europea dei diritti umani ha agito per la violazione
dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti
inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della
Convenzione europea dei diritti umani. I giudici hanno
riconosciuto alla ricorrente 30 mila euro per danni morali e 10
mila per le spese legali.