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The Power of the Dog (Venezia 78.)

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Venezia Mostra del cinema 78
“THE POWER OF THE DOG” (Jane Campion)
Film in concorso
Con : Benedict Cumberbatch, Jesse Plemons, Kirsten Dunst, Kodi Smith Mc Pee

Premessa: la Campion è una gran regista.
Nei suoi film più noti il legame (sarebbe meglio dire lo “scollamento”) tra uomo e la natura hanno il sapore del suo paese di nascita, la Nuova Zelanda.
Gli uomini: il problema.
Anche in questo “The power of the dog” questi elementi sono presenti in maniera vivissima.
Una spettacolare messinscena del west del 1925, sottolineata dalle luci quasi caravaggesche di Ari Wegner.
La vastità indifferente dell’ambiente che fa sembrare piccola cosa le costruzioni umane. Elementi realizzati perfettamente che danno vigore a un film che narrativamente non è così brillante come la messinscena.
Le strade per giungere al redde rationem sono suddivise in capitoli che creano smarrimento che rasenta la confusione. Per cui il film, complessivamente più che buono e talvolta bellissimo, non trova risoluzione proprio per la sceneggiatura, un po’ impazzita e faticosa. E, tutto sommato, con un racconto di “buoni” e “cattivi” non proprio originale.

In mezzo alle figure di Benedict Cumberbtach e Jesse Plemons, fratelli rivali ( il primo rude continuatore della stirpe dei mandriani misogini e violenti; il secondo apparentemente sensibile e mediatore) si situa il personaggio della Dunst, che è una “insegnante di piano” di nuovo sottomessa, che ha perso la voglia di rivalsa e di vita. Tocca al personaggio di suo figlio, (Kodi Smith Mc Pee), creatura androgina, a sparigliare le carte stabilendo un legame inaspettato con la zona macho della tormentata famiglia allargata.
Se il film vince a piene mai per la messinscena, sempre torrida, sempre “neozelandese”, sempre indifferente e implicitamente violenta, si resta un po’ delusi riguardo il senso ultimo del film; sorpresa non sorpresa, ritorno alla legge del taglione che non si vorrebbe ma da cui non si riesce a scappare.

Da questo punto di vista la regista sembra decidere di regalare la “vittoria” a un personaggio che è uomo e donna insieme, che è giovane, che è un nostro “contemporaneo”. E sembra rinunciare alla figura femminile come redentrice di un mondo dominato da maschi che non hanno il coraggio di guardarsi dentro e per i quali la linea di sangue è ininterrotta e irredimibile.

Nonostante ciò il film vale una visione, rigorosamente al cinema. Perché anche in un film imperfetto la regista sa mostrarci come può essere “grande” lo schermo se hai lo sguardo allenato alla desolazione della terra e dell’anima. Interpretazioni semplicemente impeccabili, in particolare da parte di Cumberbatch nell’inedito ruolo del rude mandriano.

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