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Pinocchio, Matteo Garrone ritorna alla Fiaba

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PInocchio, Matteo Garrone ritornato alla Fiaba

Matteo Garrone ritorna alla fiaba. Dopo aver messo in scena le fiabe di Basile in “Tale of Tales” il regista si cimenta col Pinocchio di Collodi. Un’operazione rischiosa, ricca di illustri precedenti cinematografici e teatrali.

Pinocchio è una delle grandi ossessioni dell’immaginario mondiale; facile pensare che il motivo sia il suo toccare corde universali in un racconto di iniziazione con elementi quasi cristologici. Ma vedendo questo “Pinocchio”, si prova un senso di insoddisfazione pressoché totale. Quello che a me è parso mancare è la capacità di trasmettere empatia col personaggio e con le sue avventure, a favore di un’illustrazione dai tratti esteriori personali ma anemici.

Un “Pinocchio” questo che corre spesso in superficie ; nessuna delle eccellenti trovate visive, nessun effetto speciale, nessuna puntuale calligrafia di un paese povero e rurale reca con sé l’indissolubile senso emotivo.
La narrazione è abbastanza fedele ai capitoli del libro di Collodi; il disegno è caratteristico del regista ma siamo di fronte a siparietti senza collante, deprivati dell’allure tipico della fiaba del fiorentino. Persino della sua pedanteria morale. Ed è strano che ciò avvenga per mano di un regista che se si immerge nel presente è potentemente emozionante.

Un Pinocchio senza bugie, senza nasi lunghi. Sì, le bugie vengono dette e il naso gli cresce, seppur una sola volta (più per stupirci con un effetto speciale). C’è un mangiafuoco (Gigi Proietti) senza carisma e senza bipolarismo.

Abbiamo un gatto e una volpe, mutuati evidentemente dall’immortale sceneggiato di Comencini, che ripetono la stessa battuta (“spizzicare”) alla nausea. Anzi, solo uno dei due, la volpe Ceccherini (coautore di soggetto e sceneggiatura col regista). Perché Papaleo, il gatto, è appena una presenza.

Abbiamo una fata (Watch) a cui è stata restituita la gioventù ma è stata depredata della magia, la magia materna che Comencini seppe bene illustrare, quasi con tinte gotiche e nonostante le fattezze matronee della Lollo.
Abbiamo un Lucignolo che è troppo bambino per essere credibile. Un caso in cui la correttezza anagrafica è ostacolo alla riuscita del personaggio.

E il protagonista, Federico Ielapi (presente in “Don Matteo”), pur bravissimo, nonostante la tecnologia contemporanea gli permetta di essere “di legno” non sembra mai un burattino. Si rimpiange l’escamotage di Comencini, che risolse i limiti tecnologici inventando un Pinocchio che alternava un animatronic creato da Rambaldi con la carne e le ossa e la non recitazione di Andrea Balestri.

All’attivo abbiamo un Benigni ritrovato; sicuramente il personaggio più ben definito del film, con dei piccoli tocchi aggiunti (specie quello d’apertura, che non rivelo) che sono sineddoche del carattere tutto del personaggio. Forse così l’attore/regista toscano trova una parziale redenzione per il suo disastroso “Pinocchio”, realizzato nel 2001 in veste d’autore e protagonista.

Personalmente trovo questo “Pinocchio” un compromesso per un’esportazione senza troppi pesi sulla coscienza, senza apparentemente tradire uno stile che però non ha sostanza. E non perché “c’era meglio una volta” ma perché una fiaba non va mai depauperata delle emozioni. Se una rilettura è sempre necessaria questa non può non colpirci nel profondo. Ma Garrone stavolta non ce la fa.

A parer mio, che ho un’ottima opinione del regista, se dobbiamo cercare un vero Pinocchio nel suo cinema preferisco rivedere il Luciano di “Reality” che guarda attraverso un vetro il Paese dei Balocchi del Grande Fratello, circondato da un iperrealismo che è sostanza.

PINOCCHIO
(id. Italia/Francia/ Gran Bretagna 2019)
Regia. MATTEO GARRONE
Con Federico Ielapi, Roberto Benigni, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo, Marine Vacht, Maria Pia Timo, Gigi Proietti

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