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Moneyball (2011) – L’arte di vincere

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Luca Ferrari, giornalista/fotoreporter
ferrariluca@hotmail.it

Viaggio fuori dal coro. Lontano dal fetore pecorino di chi obbedisce a indicazioni manipolate. Dentro la scelta coraggiosa di attraversare per primo un muro e uscirne irrimediabilmente ricoperto di sangue, ma con ancora abbastanza romanticismo addosso da rifiutare la comodità  del lusso e continuare a credere di poter vincere fino all’ultima partita. Dopo Truman Capote – A sangue freddo (2005), il regista newyorkese Bennet Miller non smette di flirtare certo con il grande cinema ispirato alla vita vera, e apre il registratore d’ingrandimento su Billy Beane, General Manager degli Oakland Athletics.

Billy (Brad Pitt) è stata una promessa del baseball. Non ce l’ha fatta. Ha mollato. È rimasto nell’ambiente ma in un altro ruolo. È divorziato, e ha una figlia. Non le scarica addosso le proprie preoccupazioni. Anzi, è lui a sentirsi teso quando la vede prendere un aereo. Sul fronte lavorativo le cose non vanno nella direzione giusta. Dopo il rocambolesco finale della stagione 2001, con la bruciante sconfitta patita in Post Season per mano dei New York Yankees, il nuovo campionato di Major League non sembra iniziare nel migliore dei modi. Le stelle della sua squadra hanno fatto fagotto, e come se non bastasse i mezzi economici messi sul piatto dalla dirigenza sono pochi e non sufficienti per rimpiazzare i campioni. Durante un colloquio di mercato con i Cleveland Indians, l’ex-giocatore intravede nell’anomalo approccio del giovane Peter Brand (Jonah Hill) un modo rivoluzionario ed economico per sopperire alle pesanti perdite subite. Lo assume e lancia la scommessa. Un azzardo. Billy Beane ha la fama di saper quasi inventare nuovi campioni, ma questa volta si sta esponendo su di un terreno anomalo per il baseball. Niente osservatori. Basta saccenti e pulpiti d’esperienza che credono di poter insegnare sempre tutto a tutti. Si ricomincia sulle fondamenta dell’approccio sabermetrico delle statistiche. Compra atleti in disarmo, a fine carriera o poco valorizzati, basandosi sulla sola percentuale indicante il numero delle volte in cui il giocatore conquista una base senza aiuto di penalità . Lo stesso allenatore Art Howe, un panciuto (e grandioso) Philip Seymour-Hoffman, già  Oscar con Miller per Truman Capote, non ci sta ai nuovi diktat manageriali. Mai particolarmente allegro a causa del mancato prolungamento del suo contratto, continua a lasciare i panchina i neo acquisti indicati da Peter, fino a quando uno spazientito Billy non fa piazza pulita degli indesiderati, obbligando di fatto Howe a mettere chi, dove e come vuole lui. L’inizio non è dei migliori. I cambiamenti necessitano di tempi più lunghi. E nella fase iniziale di Regular Season si scatenano i “te l’avevo detto”, e il gioco al massacro su Beane che stoicamente insiste. Non demorde. È certo della sua idea. Lo sport, come la vita, ha bisogno di scelte coraggiose. Perché un simile dipinto sia perfetto, necessita dell’artista e del committente. Perché un risultato possa davvero lasciare il segno e scombinare uno statico panorama, c’è bisogno dell’intuito e della ragione. Di chi mette la faccia, e chi ti copre le spalle.

A differenza di un terrificante e penoso filone commerciale sul mondo del calcio, italiano e non, dalla premiata ditta Banfi & Co. arrivando all’insignificante trilogia del film “Goal” degli anni 2000, l’America dimostra di saper ben raccontare le storie sportive se incentrate sulla realtà . Diretto da Ron Howard, Russel Crowe è stato un toccante James Braddock in Cinderella Man (2005). Meno noto, ma tanto scanzonato quanto commovente, Le riserve (The Replacements, 2000) di Howard Deutch con Gene Hackman, Rhys Ifans e Keanu Reeves, film basato sullo sciopero dei giocatori professionisti di football del 1987; una pellicola capace di raccontare un autentico percorso umano e collettivo. Uomini che hanno avuto la forza di rimettersi in gioco per venire fuori come persone nuove. E anche se non si ottiene quello per cui si ha lottato e il tabellone indica un punteggio inviso, comunque vincenti. Perché a quel punto della propria vita, tutto è cambiato per sempre. Nella pellicola di Miller, basata sul libro “Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game” di Michael Lewis, si vedono i sottovalutati Athletics stabilire un record senza precedenti nell’American League: 20 vittorie consecutive. La doccia amara arriverà  poco dopo, in una nuova sconfitta di Post Season, questa volta contro i Minnesota Twins. La sua impresa però, Billy l’ha portata a termine. Ancora amareggiato per lo scivolone sul più bello, si vedrà  recapitare dai mitici Boston Red Sox la più alta offerta della storia del baseball mai fatta prima a un General Manager: 12,5 milioni di dollari. Lui rifiuterà . Vuole vincere a Oakland. Due anni dopo intanto, i Sox, mettendo comunque in pratica il sentiero tracciato da Beane, conquisteranno le World Series dopo 86 anni in cui non vincevano il titolo della Major League.

Fuori dalla storia e dal grande schermo la vita è molto più amara. Baracconi di giocattoli difettosi impongono la loro legge. Dall’altra parte del telefono, o di una temporanea stretta di mano, non c’è più nessuno abbastanza lungimirante per dare una chance. Un qualsiasi comportamento appena diverso dà  il via alla caccia della “voce fuori dal coro”. I limiti della comunità  sono la nuova scoperta, e il suo più grande pericolo. E se questo è davvero il mondo che si è fortificato davanti, è preferibile non fraintendere mai le proprie idee, evitando di vivere, vincere o perdere anche solo per un secondo con la certezza di aver assecondato l’ottusità  esperienziale della folla. Perché l’unica follia che è doveroso concedersi sarà  quella di credere che ci riproveremo. Sempre pronti a lottare con la convinzione di non perdere mai più.

Cavolo, come si fa a non essere romantici con le proprie cadute?…

[02/02/2012]

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