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Mommy di Xavier Dolan, il piacere dello sbando narrativo. Di Giovanni Natoli

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dal daimon del disturbo psichico.

Di per sé la storia non è nulla di nuovo; capita sovente di imbatterci in film occupati a raccontarci storie vere di gente qualsiasi, raccontate con uno stile che si vuol contrabbandare come realistico. Un excursus per canali tv come La 7 o la Effe, per restare nell’ambito televisivo. O il realismo di certi programmi tematici, sempre televisivi, che mentono sull’esistenza del linguaggio nel proporre le storie della “realtà” nelle fiction che inscenano i casi veri. (“Chi l’ha visto?, more criminale, prìncipi della contraffazione del linguaggio).

Il film di Dolan invece si concentra sulla messinscena, optando per soluzioni inconsuete, con immensa generosità di stile. Il regista non nasconde nulla della natura filmica; piuttosto, come ogni buon regista, la piega per imprimere forza al racconto. E di forza, in “Mommy”, ce n’è da vendere.

Le anomalie sono principalmente nel formato cinematografico; il film è girato con l’immagine che occupa solo il terzo centrale dello schermo. Una scelta, a parere di chi scrive, che ha una doppia funzione; costringere la macchina da presa ai primi e primissimi piani, impedendo allo spettatore di sfuggire all’empatia delle emozioni, non solo dolorose e descrivendo simbolicamente la claustrofobicità della situazione. Solo a un certo momento lo schermo si apre completamente, per un momento di speranza e illusione che non voglio svelare.

Oltre a ciò c’è il piacere dello sbando narrativo. Basti pensare ai momenti in cui Steve si lancia nelle sue scorribande. Vederlo volteggiare in longboard mentre rotea un carrello del supermarket, pieno di generi alimentari che si intuisce rubati, ci porta irresistibilmente a dirigerci verso la forza centrifuga della sua dimensione mentale, in un rapimento emotivo che Dolan condivide e ci fa condividere senza alcun patema di oggettività.

Scelte di genio? Non saprei. Efficace e circostanziata? Assolutamente sì.
In “Mommy” Dolan esprime acriticamente tutto il suo amore per i personaggi del film e senza dubbio per tutte le persone cui la vita obbliga ad essere speciali per forza. Una madre piena di errori alle spalle ma che sembra non crollare mai. Facilissimo amarla, anche se a prima vista sembra né più né meno che una buzzurra con tacco 15. Un figlio pazzo che proprio mentre vorresti riempirlo di pugni scopri di adorarlo come un cucciolo impaziente e ferito. Una vicina schiacciata dalla timidezza (e probabilmente da un matrimonio gelido) per cui tifi per la sua emancipazione.

Cinema dell’empatia sviluppato con stile fiammeggiante, senza troppe remore, con qualche ammiccamento e molta passione. Ma anche gran controllo e direzione degli attori, a dir poco sublimi (sarebbe da vedere in lingua originale). Non so dire se Dolan sia un nuovo genio; di certo posso dire che gli spettatori in sala escono turbati dalla visione del film. Che non fa nient’altro che ribadire il concetto che il demone della follia fa continuamente crollare ogni certezza.

Giovanni Natoli

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