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Tre giorni e tre notti con la madre deceduta nel letto. A Marghera dramma dell’impotenza di chi è abituato a stare ai margini

Argomenti dell'articolo
→ madre morta vegliata in casa → Dramma famiglia emarginata dalla società a Marghera
lettura: un minuto e mezzo

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Una storia di povertà e solitudine questa: è domenica e una madre di cinquant’anni, muore nella sua casa di Marghera , dopo un breve malore.
Con lei ci sono le sue due figlie, maggiorenni, che scosse e disorientate, chiamano il 118.
Non si sa se abbiano chiesto aiuto ai vicini, a qualche parente, ai Servizi sociali, e quando arrivano i medici dell’Ulss, non possono far altro che costatare il decesso della signora, per morte naturale.
Viene informato il marito, che inspiegabilmente (forse non aveva capito, forse non gli hanno concesso il permesso?) non rientra subito a casa.
Gli intervenuti salutano e se ne vanno. Le figlie li guardano andar via. E da quel momento inizia la veglia.

Il corpo della signora non viene trasportato in ospedale, o al cimitero, come succede in circostanze analoghe (di chi era il compito? N.d.R.), rimane in casa, nel suo letto (è legittimo?) e le figlie, forse abituate a vivere quotidianamente una vita di disagio, assistono a tutto senza reagire.
Rimangono tre giorni e tre notti con la mamma morta sul letto.

Quando si è abituati a privazioni che i più non conoscono, si accetta quel che viene, anche il dolore si mescola con l’indigenza, fa parte di una storia, dello stesso destino, considerato, da chi conosceva la famiglia, molto ‘particolare’. È vero che questo aggettivo può assumere molti significati. In questo caso vuol dire bisognosi, miseri, in grave difficoltà.
È anche questa, ‘la banalità del male’, come ha scritto Hannaa Arendt, quando il dolore degli altri ci circola intorno e noi lo ignoriamo per incapacità di capire, per ignavia o perché fa troppo male. Lo possiamo tollerare, non è il nostro.
Da sole, con quell’isolamento sociale che diventa cupa emarginazione, le figlie stanno accanto alla madre in attesa del ritorno del padre e nessuno potrà mai capire cosa sia accaduto dentro la loro mente e il loro cuore.
Abituate a vivere nell’isolamento a sopravvivere alle difficoltà, a mescolarsi agli odori di un tempo infelice, a vedere i genitori ricorrere al buon cuore della beneficienza e agli aiuti del Comune per la sussistenza: stanno nel labirinto che attanaglia la loro esistenza.

Quando ritorna il padre dalla trasferta di lavoro, il mercoledì successivo, e i suoi occhi vedono la desolazione che regnava sovrana in quelle stanze e nei volti delle sue figlie, informa la polizia locale, che interviene e prende atto della gravità della situazione sociale della famiglia e forse si interroga e verificherà sul perché nessuno abbia provveduto prima, a far la cosa giusta, a non lasciare in casa una persona deceduta, in piena e calda estate.
Sono loro a decidere anche per gli altri: informano i Servizi sociali, chiamano un’agenzia funebre, che ha provveduto a rimuovere la povera salma e saranno loro a richiedere all’Ulss, la sanificazione delle stanze della casa.

Ora i soliti commenti, si dice che la famiglia viveva tanti problemi, che il disagio era entrato a tutto titolo dentro quelle vite, vittime persino dell’assurdo provocato questa volta da chi problemi non ne dovrebbe avere nello svolgimento dei compiti e delle responsabilità da assumere al momento giusto.

Spiegazioni, scuse, i poveri non se le aspettano più, sanno che devono stare a testa bassa e che quando ricevono qualcosa, devono dire grazie.
Non a caso avranno in dono il funerale dei poveri, quelle ragazze, per la loro madre.

Andreina Corso

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4 persone hanno commentato. La discussione è aperta...

  1. Ringrazio Ivana per le sue parole e Diego che mi invita a essere più precisa.
    Gli elementi che noi abbiamo avuto a disposizione per cercare di capire come possa possa essere stato possibile vivere una situazione così penosa, sono questi.
    Le figlie hanno chiamato il 118, l’Ulss è intervenuta, ha dichiarato la morte della madre e i soccorritori hanno confermato il decesso per cause naturali. Mi spiace e mi scuso nel dover ricordare che le ragazze, evidentemente, non erano in grado, non sapevano cosa fare e credo che gli occhi dei medici e dei soccorritori siano abituati a riconoscere una situazione di grave disagio che provoca l’incapacità di agire, di sapere come comportarsi. Era domenica, il medico curante non c’è. Avrebbero dovuto chiamare la guardia medica, ma per i motivi appena detti, non lo hanno fatto. Avrebbero potuto, il giorno dopo chiamare il Servizio sociale. Il padre, pur avvertito mentre si trovava a Treviso in trasferta di lavoro, non è tornato. Non si accenna a vicini di casa, ad amici. In questa solitudine cupa, gli unici che potevano aiutare le figlie a trasferire la salma della madre, erano i sanitari. Forse non si sono accorti delle difficoltà di quella famiglia, ma in questo quadro desolato, penso che siano i soli nel deserto che avrebbero potuto evitare quella che mi pare e sento come una tragedia che attraversa le vite invisibili e il loro difficile percorso di vita. Grazie

  2. Andreina Corso: hai scritto e descritto con il cuore e con la sensibilità la tristezza di queste vite. Ci vuole empatia e ci vuole quel tocco di umanità che a troppi manca e che molti dovrebbero acquisire. Siamo una società, non reparti a compartimento stagno.

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