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Jackie, film decisamente riuscito con qualche leggerissimo tocco agiografico

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In primis:
“Jackie” ci permette di dare l’addio al grandissimo attore John Hurt. Protagonista “senza volto” di “Elephant man”, un capolavoro di David Lynch del 1980, Hurt è rimasto celebre ai più per la sua apparizione in “Alien” di Ridley Scott. Anche lì in una situazione in cui i suoi tratti rugosi venivano occultati dall’alieno. Hurt è stato l’attore che è morto più volte nella finzione cinematografica. Ma questa volta, purtroppo, si tratta della realtà. E Hurt ci lascia con l’immagine di un anziano prete che deve raccogliere i turbamenti di Jacqueline Bouvier, al tempo vedova Kennedy. E di celebrare la spettacolare funzione in onore al presidente ucciso a Dallas nel 1963 dopo poco più di due anni dall’elezione.

Il film non vuole sciogliere i misteri che tutt’ora aleggiano su quell’omicidio, ancora oggi tra i momenti fondamentali della storia occidentale. Vuole riflettere sul mistero Jackie. La giovane, imperturbabile Jackie, il cui contegno glaciale e i suoi sorrisi smaglianti sono stati per decenni tra i massimi protagonisti della stampa mondana e non. Ho sempre odiato Jacqueline Bouvier; una donna così benestante, presenzialista e attenta alla forma da apparirmi spregevole. La sua bellezza per me è sempre rimasta un mistero.

Non è invece un mistero la bellezza di Natalie Portman; il film del regista cileno Larrain è anche un omaggio a questa minuta donna dal volto stupendo e dal talento certo.

In “Jackie” seguiamo le mosse, nel senso scacchistico vero e proprio, tra l’ex first lady e il giornalista Theodore White (Billy Crudup). Durante la narrazione assistiamo a quelli che si possono definire i tre momenti-Jackie. L’intervista per la tv nella quale la signora Kennedy presenta le sale della Casa Bianca ( filmata sia nelle immagini fittizie in BN della ricostruzione del programma, sia nel dietro le quinte); la Jacqueline che deve affrontare il lutto, dopo che in prima persona si è vista uccidere il marito durante la sfilata a Dallas. E la Jackie che deve gestire e preparare il culto del presidente. Una piccola donna tenacemente attaccata a quella che dovrà essere la verità ufficiale.

Il film di Larrain è decisamente riuscito, nonostante qualche leggerissimo tocco agiografico. Talmente leggero che viene da immaginare che è il poco che resta di spielberghiano della sceneggiatura di Noah Oppenheimer, precedentemente offerta al regista di “ET”.

E un altro legame con Spielberg lo si può trovare nei paralellismi tra Kennedy e Lincoln, che Jackie Kennedy ha così ossessivamente presente nella costruzione di una memoria in cui le ombre vengono occultate per celebrare una figura controversa ma a quel tempo identificata come il “president buono” nel triumvirato della pace assieme a papa Giovanni XXIII e Krushev.

Il film segue la lezione wellsiana del mistero di un uomo. In questo caso femmina. Solo che abbiamo in prima persona la diretta interessata che ce lo dipana davanti agli occhi. Jackie fuma come un’ossessa e si scioglie in calde lacrime nel rivivere l’esperienza presidenziale. Ma chiede al giornalista di omettere quei momenti e di ricordargli che “lei non fuma”. Alla fine del film che Jackie resta? Tutte quante assieme, in un gioco di specchi deformati che il personaggio tiene assieme. Così come tiene assieme tutti i pezzi di una storia che umanamente poteva schiacciarla, compreso il rapporto con Bob Kennedy (P.Sarsgaard), quasi non cosciente della delicata tessitura e del significato e dei simboli di quella morte.

Il film non è un monumento a Jacqueline Bouvier. E’ invece un studio, profondo su una delle personalità più indecifrabili del XXmo secolo. Ma è senza dubbio un monumento a Natalie Portman, convincente anche quando, nella sua recitazione più che il talento avvertiamo la caparbietà di essere all’altezza del ruolo. Essa stessa, con “Jackie”, si sottopone a una prova complessa, forse la più complessa della sua già lunga carriera, iniziata con “Leòn”; quando era una bellissima bambina prodigio che ha poi saputo gestire il suo futuro artistico salvandosidalla prigionia di un ruolo.

Larrain la pone perennemente al centro della scena, con i famosi abiti Chanel resi immortali dalla vera Jackie. Oppure in lunghi primissimi piani che consacrano la strepitosa fotogenia dell’attrice, tra i volti che più funzionano su grande schermo oggi in circolazione. Un viso magnetico ed elegantissimo ornato da sopracciglia mobili e da lineamenti canoviani (io che l’ho vista di persona posso confermare che anche nella realtà è proprio così). D’altronde tra i produttori troviamo Darren Aronofski, che su quei tratti aveva cesellato “Il cigno nero”.
“Jackie” non sdogana la vera Jackie; non è uno dei tanti film biografici che hanno affollato le programmazioni dei cinema in questi ultimi anni.

Il film non mostra la “vera faccia di”, come per i film sulla Tatcher o sulla Kelly. “Jackie” ha il merito di mostrarci un camaleonte nelle sue diverse mutazioni, creando un senso di ambiguità nell’intimo dello spettatore. Alla fine del film Jacqueline, fresca vedova Kennedy, mentre è in automobile, nota che da un furgone stanno portando in un negozio tanti manichini a sua immagine, con la “divisa” Chanel. Un finale geniale in cui Jackie sembra accettare stoicamente il suo destino pubblico di cristallizzata arbiter elegantiarum, sorriso sempre pronto e imperturbabilità nei comportamenti. E’ l’ultima mossa di scacchi di una pellicola che sa andare oltre gli aut aut dei soliti biopic. E che vale davvero la pena di vedere, per le idee e per la seduzione della messinscena.

JACKIE
(id. 2016, U.S.A., FRANCIA, CILE)
regia: PABLO LARRAIN
con: NATALIE PORTMAN, PETER SARSGAARD, JOHN HURT

Giovanni Natoli

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