Verrebbe da farsi alcune domande sugli interrogativi che han colpito molti spettatori dopo la visione de “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone, insolita produzione di genere fantasy per l’Italia.
L’interrogativo è soprattutto uno: abbiamo assistito a una fiaba?
Com’è che il cuore non è riuscito a restare affascinato e incantato?
Forse Garrone ha sbagliato nel mettere troppe delle sue tematiche in un film che avrebbe il dovere di rappresentare i racconti di Basile?
Oppure abbiamo dimenticato cosa sono le fiabe?
Il frastornante cinema fantasy di produzione americana ci ha davvero così assuefatto ai colpi di scena forti (e alla mancanza del senso della fiaba però), al 3D spinto (e spesso inutile), al fragore del THX che sotterra i dialoghi a favore del sound design?
Ma mi viene anche d’interrogarmi sul perché, in molti momenti questo film possiede una forza unica che, appunto, rifiuta la logica della spettacolarizzazione per proporci lo spettacolo della natura, dei castelli, delle acque, del sangue.
Uno spettacolo condotto dalle donne, in cui Kubrick si sposa a Fellini e a ritmi da cinema orientale.
Diciamo subito una cosa, indubbia: Garrone, nell’approdare a un cinema di coproduzione internazionale è riuscito a non tradire se stesso. Certe suggestioni simil horror son quelle dei primi film, in particolare ho pensato alla fonderia in cui, nel film “Primo Amore”, il protagonista ricava l’oro depositato nelle pareti.
Un antro orchesco, come il protagonista (e in questo “Racconto dei racconti” …